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domenica 21 agosto 2016

L'AMORE DELLE TRE MELAGRANE. 13

L'amore delle tre melagrane 13.
Appena arrivata scendeva dall'auto e protendeva le labbra per un bacio lunghissimo interminabile. In casa aveva buttato la borsa sul tavolo restando a guardare quella bottiglia vuota con infilato il ramo lunghissimo attorcigliato dalle foglie lanceolate.
"Che cos'è, Ciccio?"
“Tornando dal cimitero, ho fatto un percorso interno, dove passano dei canali e delle piccole dismesse centrali elettriche. C'è un immenso salice. E mi è tornata la voglia di un salice, piangente lo chiamano, ma a me sembra che rida con i suoi lunghi capelli da fricchettone. Sai Ciccio, ne avevo uno così anche tanti anni fa; e m'avevano insegnato come fare per farlo attecchire in fretta. Basta tagliare un ramo lungo, infilarlo nel terreno e bagnarlo abbastanza di frequente. In genere butta da solo le radici. Ci vuole un palo di sostegno, per farlo stare bello dritto che non si accasci in giù. La prossima primavera credo che potrà reggersi da solo, e non sarà più sottile come un dito il suo fusto lunghissimo, ma sarà almeno raddoppiato."
"Quando ti eri sposato la prima volta?"
"Sì. Lì al paese Renato sapeva tutte queste cose. E te le spiegava sempre se volevi. Parlava un fluente dialetto locale e attaccava i suoi discorsi dicendo: "Sti ani ‘ndrera…."  Negli anni passati, una volta"). Mi aveva fatto conoscere gli ultimi alberi del gelso moro, che facevano i ” muron”. Le bacche più chiare di un colore rosato vellutato; e le altre con un colore un po' violaceo smorto. Erano gli ultimi sopravvissuti della bachicoltura. Nella coltura della seta. Si andavano a strappare le foglie per pasturare i golosi bachi, nel tempo che questi, stesi sui graticci di giunco, facessero le loro mute. L'ultima delle quali era la più lunga, tant'è che si diceva: "durmì dla quarta"  dormire come nella quarta muta, molto a lungo). Oppure mi aveva fatto bere l'acqua sorgente che zampillava a pelo d'acqua, nei rivoni stagnanti. Era una polla che sgorgava fuori dal pelo dell'acqua, e bisognava abbassarsi in ginocchio allungando il collo per berla direttamente. Non sembrava vero poter bere dell'acqua fresca limpida proprio lì.
E mi aveva insegnato come tagliare un lungo ramo, come infilarlo in profondità nel terreno, come farlo sorreggere da una canna molto lunga e alta.
Da quando ci eravamo conosciuti, io e lei, quasi tutte le sere andavo a cena dai suoi che erano molto gentili e ospitali. Mi cucinavano dei cibi locali di una volta, "da sti ani ‘ndrera". La paniscia, con il salamino di fegato fritto nell'intingolo; la “cazoela", con le costine e le puntine di maiale annegate nella verza che si disfaceva; la frittura di interiora. La madre, mi guardava divorare voracissimo e in giro, con un sorriso di ammirazione. " L'è un piasé Nanni videt mangiá" ( = è un piacere vederti mangiare).
Il padre di lei con degli amici faceva venire dalle Langhe dei camion di uve. Con i camion portavano anche dei tini e il torchio. Avevo partecipato anch’io a una vendemmia così. Erano uve barbera, alle quali veniva mischiato qualche cesto di uva nera “cruatina”, che dava corpo a quel barbera. Dopo la fermentazione si imbottigliava e si lasciava riposare un bel po'. Ne usciva un vino che spandeva una schiuma purpurea, molto saporoso, frizzante; talvolta le bottiglie che non erano state tenute bene al fresco scoppiavano addirittura.
In genere mi contentavo di pasti normali. Per non disturbare troppo.
Poi, dopo il mio spettacolo di golosità, loro garbati e discreti andavano di sopra a dormire. Lasciandoci soli per le nostre effusioni.
Dopo che ci eravamo sposati, con una buffa cerimonia in un paesino di mezza montagna, in una chiesetta semiabbandonata, minuscola , che avevamo rinfrescato con una mano di calce, addobbandola con cesti dismessi che avevamo verniciato con lo spray di bianco, abitavamo in città.
Ma almeno una volta la settimana andavamo da loro. Per piacere. Per comodità. Per golosità. Per gratitudine.
Attraversando il paese prima del loro, dopo il cimitero c'era lo stelo altissimo di cemento con in cima la struttura a forma di disco volante: era la cisterna dell'acquedotto. Sapevo che per la teoria dei vasi comunicanti, bastava con il minimo sforzo aver pompato e mandato in cima in quella cisterna dell'acqua, e lasciarla fare pressione sul tubo che scendeva nello stelo. Questo garantiva la pressione giusta all'acquedotto per tutte le abitazioni. Ci avevo fatto diverse volte delle esperienze analoghe con i bambini a scuola, nei vari laboratori di scienze che li appassionavano e nei quali mi divertivo tantissimo.
Dopo il passaggio a livello, avvicinandosi a questo ultimo paese, si scorgeva da lontano lo stelo lungo e bianco di cemento con sopra la sua cisterna. E ci giocavo con lei a dire che era un disco volante. Lei rideva per compiacermi. E quando ci avvicinavamo al disco, guardando all'insù facevo la voce dei marziani: "bdim, bdum, bdim, bdum…" Producendo un suono sordo un po' gutturale fatto con la lingua fatta schioccare contro il palato. Un po' come quando ci si fa vibrare in bocca quello strumento siciliano. Lo scacciapensieri. Che emette quel suono sordo, ma molto piacevole. Accompagnato dalle modulazioni della voce che vibra insieme a quello, con variazioni.
Anche i miei marziani si divertivano a parlare in quel modo. Lei si divertiva. O stava al gioco mostrando di divertirsi.
La Dyane verde, flessuosa molleggiata, ci portava come una barca a quelle cene paesane e familiari così deliziose. E poi ci riportava a casa.
Una sera che c'era nebbia, appena superato il passaggio a livello, dalla nebbia ci era spuntato fuori e apparso in mezzo alla strada un coniglio bianco… o era una lepre… Non ebbi modo di appurarlo. In una precedente occasione preso da un raptus venatorio avevo investito una gallinella d'acqua. Una “puleòta” . Confesso che sia io che lei ci eravamo sentiti degli assassini. Soprattutto io.
Di modesta corporatura, il pennuto si ergeva su lunghe zampe rossicce; finché era vivo però. La madre di lei ce l'aveva cucinato. Non ricordo il sapore. Ricordo soltanto un profondo senso di colpa, per aver assassinato quel grazioso volatile che si nutre di rane e bisce d'acqua nelle risaie.
Fatto sta, che mentre il coniglio bianco o lepre che fosse se ne stava in mezzo alla strada abbagliato dai fari dell'auto che avevo fermato, dopo uno sguardo d'intesa rapido con lei, avevo deciso. Mi ero limitato a scendere a guardare la bestiola spaventata, e con voce dolce avevo detto: "vai, ciccio, vai a casa tranquillo, ma stai attento a traversare le strade, può essere pericoloso, sai…?"
Tornato in auto avevo sentito la mia mano che stava innestando la marcia con il cambio a cruscotto, e che riceveva l'aria calda del riscaldamento, sfiorata e afferrata con dolcezza dalla mia compagna di allora. Apprezzava e ammirava la generosità che avevamo regalato a quel bianconiglio.
Già altre volte, numerose in verità, ci era capitato di vedere sul bordo della strada o in mezzo all'asfalto la macchia dolorosa dei ricci, assassinati dagli pneumatici. Talché, ogni volta che ne vedevamo qualcuno traversare, rallentavamo, mettendo le frecce d'emergenza, e aspettavamo che con le sue zampine nere come piccole mani il bestiolino raggiungesse l'altro lato della strada.
Qualche volta mi ero anche sporto dei finestrini scorrevoli dell'auto, buttando fuori la testa, e invitando il grazioso animaletto a tornare a casa.
Il salice, allora, era cresciuto immensamente. E c'eravamo accorti solo in quel momento che produceva strati immensi di foglie, quando le cambiava. …"
Era rimasto zitto per un po'. Accendendo la pipa e tirando avide boccate. Passando a lei qualche tiro ogni tanto.
Lei gli stava accoccolata addosso, carezzandogli le mani e la guancia. Gustando il silenzio e ricordando la sua narrazione.
"E dici che anche questo salice qui, diventerà così?"
Lui era rimasto un po' perplesso prima di rispondere. Già una volta ci aveva provato tornando da quel giro al cimitero dei suoi "ragazzi". Con risultato fallimentare.
"Boh! Almeno ci spero! D'altra parte nei cassonetti del terrazzo a pozzo in mansarda finora non ho raccolto niente di speciale. Le ciliegie e le amarene dei tre alberelli, di cui adocchiavo la sera prima le drupe belle mature, il mattino dopo non me le ritrovavo più.
In compenso sentivo fischiare un merlo birbacchione sui tegoli lì vicino. Un fischio che aveva il sapore del ringraziamento e anche dello sberleffo.
L'insalata non la curo mai. L’alloro si ammala. Il rosmarino pure. Anche la piantina della rosa canina sta per morire soffocata dalla menta invasiva.
Almeno il salice ci divertirà con la sua presenza.
Potremmo anche trovare qualche betulla giovane da trapiantare. Anche quelle fanno compagnia con il bianco della loro corteccia di carta. Anche allora ne avevo piantate alcune la nel paese accanto al salice."
Lei aveva profittato del suo silenzio momentaneo, per baciargli la bocca e prolungare il più a lungo possibile la pace, temporeggiando verso la sua foga narrativa.
Nanni Omodeo Zorini Qfwfq