MATILDE NON ABITA PIÙ QUI? (completo)
Cap.1.
Per arrestare il turbinio delle ricerche, le competenti autorità
avevano preferito diffondere la notizia del suo ritrovamento.
Lei stessa, a dire il vero, non si era mai ancora ritrovata, né si era
assolutamente riconosciuta.
Ehmbé…? Cos’era tutta questa messinscena?
Chi modestamente si è preso la briga di narrare questo prosieguo di
narrazione, si trova praticamente con un paio di maniche; eppure, il Web, con
tutte le sue attrattive, tentazioni, inghippi e sortilegi, aveva mosso i suoi
passi. Era stato proprio il signor Web, a tirarlo per la manica della
giacchetta: invitandolo e spingendolo a riprendere a narrare.
Lui, a dire il vero, aveva voluto imbarcarsi in una narrazione di
indagini e quindi gialla.
Ma l’avevano preso alla sprovvista.
Era scomparsa una persona. Questo è certo. Non avendo nessun legame
costei se n’era andata in giro vagabondando. Poteva farlo perché aveva ampie
disponibilità economiche.
Tra le rane e i risi: non ne sapevano niente. (Tranne poi,
malevolmente, fare la soffiata a chi di dovere… E per tenere calda e accesa la
situazione: messaggi minatori, piccoli WhatsApp, di sfide, larvate minacce… )
E c’era un tale che si divertiva a narrare. E c’era una sua conoscente,
dai capelli neri a caschetto, che l’aveva gentilmente implorato. Il pretesto:
favorire il perfezionamento di una vendita di un modestissimo appartamentino
del cazzo, mettendo in contatto la ricercata uccel di bosco, con un modesto
proprietario purtroppo un po’ “nudo”; nonché, soprattutto con una piccola
impresa immobiliare, tale Fardelli&C. Con sede legale, pare, ad Alzate di
Momo…
Ma questo particolare è assolutamente irrilevante.
E allora?
La ricercatrice dai neri capelli a caschetto, aveva coinvolto,
nientepopodimeno che una specie di narratore… Che si era, seduta stante,
improvvisato detective, benché un po’ alla carlona…
Sì, narratore però è una parola un po’ grossa. Insomma, un buontempone
che amava raccontare la rava e la fava. Utilizzando una piattaforma che
sembrava esser stata messa lì apposta. Più gente seguiva il narrare di quel
narrante, più ascensori, protesi dentarie, montascale e apparecchi acustici
sarebbero stati pubblicizzati.
Eppure, nonostante la sua modestia professionale come narratore, e
quantomeno come improvvisato detective, era seguito in quel sito da un numero
infinito di fans, lettrici e lettori.
Non sta a me dirlo: spesso ritrovava segni di gradimento proprio lì
nella piattaforma. E addirittura quando lo incontrava qualche amica o amico che
aveva perso di vista da un sacco di tempo, si sentiva dire:
“eccolo qui… proprio lui… scrivi scrivi… dài… ma certo, anch’io sono
una/o di quelli che ti legge… Cosa ci hai preparato di nuovo…?”
Caschetto di capelli neri, utilizzava come nome identificativo
“Filippa”. L’aveva scelto apposta perché abbastanza inusitato.
E, nella narrazione, ci teneva a risultare una amica di vecchia data
con legami molto intimi anche se per il momento attenuati…
E dunque?
Quello che affermo è vero solo nel contesto narrativo, sia ben chiaro:
aveva cercato il narratore in parola, l’aveva fatto muovere con la sua Honda
400 per fargli girare la bassa e l’alta zona del novarese. Fino ad imboccare
quel tratto dove inizia la valdossola, che fino a qualche tempo fa faceva
ancora parte della provincia di Novara.
Questo è quanto.
Dunque…
Fatti nuovi? Si fa per dire…
Dopo il rinvenimento, ritrovamento, individuazione di una certa
graziosa fanciulla semi giovane, seducente e dalla vistosa capigliatura rosso
mogano, la gentile Filippa aveva potuto ascoltare direttamente dalle parole di
costei: “Ora me ne torno a casa mia…” (L’affermazione era stata seguita da
altri termini che qui, per pudore, è preferibile omettere…)
Recatasi, adunque, all’indomani, dopo aver trascorso una notte
piacevole sotto le coltri e il piumone con il narratore compiacente, recatasi a
quello che risultava essere l’indirizzo di abitazione della fulva grazia… insomma:
aveva suonato il campanello dell’alloggio più e più volte. Aveva le mani
intirizzite. Ma seguendo l’esempio del motociclista narrativo, non aveva
lasciato perdere…
Anche perché, nel frattempo, è necessario dirlo era iniziato uno
strombazzante tamtam…
Elicotteri , protezione civile, cani da slitta, passanti e curiosi…
Radio, tv, media e social…
“dove sta Za-za, maronna mia… “
(“…eh, la maronna… Ma ancora? Dove si è cacciata
questa qui di nuovo…?)
Filippa non osava cellularizzare di nuovo lo
pseudo narratore: temeva, infatti, che lui potesse ritenere che lei lo cercasse
di nuovo per ripetere, magari con delle variazioni, i giochi e le piacevolezze
con cui si erano insieme intrattenuti la sera e la notte precedente.
Ne approfittò per far partire la lavastoviglie.
Sistemare alcune cosette stirate nei cassetti del guardaroba. Guardarsi diverse
volte nello specchio…
E fu proprio lo specchio ad aiutarla.
Le rimandò un immagine sorridente, soddisfatta, a
dir poco gioiosa…
E quell’immagine diceva e le suggeriva: datti una
mossa Filippa… Ricordi che erano mesi che andavi in bianco…? Non puoi e non
devi temere che dopo i giochi di prestigio e i quattro salti in padella di una
sola serata/notte il tipo ti abbia già a noia…
È un notorio amatore, don giovanni, e come si
diceva una volta “sciupafemmine”.
Puoi benissimo cominciare con una frase mostrando
che caschi dalle nuvole… E così fece.
«… Lo so… Non mandarmi subito a cagare o al
diavolo… Ma questa mattina sono passata dalla fulva smarrita/ritrovata: e dopo
un sacco di tempo che pigiavo il pulsante del campanello, non mi ha
assolutamente aperto… Presumo, temo, pavento che la mia giovane pseudo zia non
sia affatto tornata a casa. Ma che abbia ripreso i suoi girovagari.
Immagino di averti rotto le palle. E di rompertele
ancora in questo momento tenendoti con il tuo tablet accostato all’orecchia.
Se vuoi, ne hai facoltà, puoi benissimo dirmi che
sei in giro in moto. O a fare una visita medica. O impegnato diversamente piacevolmente che non a
conversare con me…»
Aveva buttato fuori, tutto d’un fiato, quel discorso.
E ora temeva di sentire cadere la linea.
Qualche istante di silenzio on-line. Poi:
«… Come avevo previsto… Niente di più probabile…
Ieri, in quel di Beura, l’abbiamo sentita cacciar via quel fessacchiotto che la
importunava.
Ma, ci vuol altro… Secondo me…
Ha, sì, detto a quel tipo di scomparire;
minacciandolo; e aggiungendo che se ne sarebbe tornata a casa propria.
Ma, ammettiamolo: non sempre quando qualcuno dice
che va in un posto, va davvero in quel posto lì e non in un altro. Voleva soltanto
togliersi di torno quel moscone invadente.
Ma, è pur vero, che da molto tempo lei è diventata
una girandolona. E ne ha tutto il diritto! Liberatasi della flatulenza sulla
quale il moscone gironzolava, avrà certo preferito recarsi da qualche parte. A prendersi
piacere. A fare qualcosa di meglio in parole povere.
Io, lo confesso, ho incontrato occasionalmente la
tipa diverso tempo fa. Non ne conosco i gusti.
Prova magari tu a formulare delle ipotesi…
Soprattutto tenendo conto del contesto nel quale avviene la nostra attuale
conversazione narrativa.
Secondo te…? Dove potrebbe essere andata…?
Ma certo che non sono incazzato con te… Stavo
giusto pensando alla piacevolezza che ho ritrovato rincontrandoti.
Butta fuori quello che pensi. Dài…»
Ma, non so, può darsi, magari, buttò lì, tra il
compiaciuto e disorientato l’amica.
Fatto sta, che comunque, dopo aver provveduto a
far scorta degli ingredienti necessari: melanzane, pomodorini, carne trita,
indispensabili per preparare una mussaka, mandò un messaggio telegrafico, ma
non troppo, e usando il canale di WhatsApp, in cui lo rassicurava: diciamo
verso le 11/11:30? Se non fa troppo freddo per te di venire con il tuo rombante
bolide…
Nel linguaggio whatsappistico: fu sufficiente che
lui spedisse un asciutto, essenziale: OK. (Per quanto non sia ancora stato
menzionato qui, alcuni sanno che lui aborriva, detestava, disprezzava e perciò
rifiutava l’utilizzo di quei disegnini stupidotti chiamati comunemente
emoticon, alias “faccine”. Solo per inciso: ne aveva ricevuti a bizzeffe, anni
addietro , da qualche desueta amichetta che ormai aveva messo da parte. E
trovava, per quanto sintetici, troppo limitati quegli strumenti di
comunicazione iconica. Lui amava e prediligeva le parole. Il linguaggio.
Insomma la lingua in tutte le sue accezioni e utilizzi. Di comunicazione e
anche per dare piacere…)
Essi risultavano insieme: prolissi, ridondanti, farraginosi, poco
chiari, non necessariamente espliciti… Dicevano delle cose, alludevano a delle
altre, ma potevano creare confusione e incomprensione.
E quando era poi arrivato venne accolto da un profumo che dalla cucina
soggiorno, si estendeva all’ingresso, con elementi odorosi di: melanzane
soffritte, carne trita, besciamella, cannella…
Chiunque avrebbe forse potuto dire che Filippa aveva qualche difetto…
Può darsi anche… Difficile individuare quali… Non aveva certo il difetto di
essere poco gentile, affettuosa, altruista, e neppure di essere una pessima cuoca…
E ora in questo momento non andava considerata come cuoca occasionale…
Ma come amica. Come persona socievole. E la sua socievolezza in questo caso la
metteva a disposizione tirando fuori e mettendo in pratica le proprie doti e
virtù culinarie. Anche. I sorrisi che prodigò appena lui si può affacciato alla
soglia, il tono di voce, l’abbraccio che gli regalò spontanea e generosa, il
bacio che stava per dargli sulla bocca, ma che cautamente si fermò sulla
guancia coperta da corta barba.
(Se è permesso, cautamente, un rapido salto in avanti, si può
anticipare qui che:
Viene trovata solo alla fine: in un galattico iperstore, tutte luci e
paccottiglia varia vistosa offerta in vendita.
Dice che era passata di lì solo per caso. Anzi non c’era neanche
passata.
Per mari e per monti; per laghi e torrenti; “multas per gentes et multa
per aequora vectos” (Catullo)
stranita, frastornata, sconvolta e insieme raggiante e radiosa
Solo che, guarda caso, per disavventura e disculo: non si trattava
assolutamente di lei.
Ma riprenderemo con calma da questo punto, altrimenti la mussaka, già
servita nei piatti, ed è molto buona sera calda senza ascoltare la lingua e
labbra, si raffreddi.
Diamo tempo al tempo. Mentre consumavano mussaka, lei ebbe modo di
raccontare da quel che si ricordava, quali fossero le abitudini di questa
specie di zia per passare il suo tempo libero…
Ma, è necessario arrestare la conversazione e la narrazione.
Perché poi verrà ripresa esattamente da questo punto. Inforchettando sapidi
bocconi caldi ma non troppo di mussaka, lui venne informato delle abitudini
relative al tempo libero della piacente semi zia dalla capigliatura
fiammeggiante.
Riprendiamo tra poco?)
Cap.2.
[ “… Ma che cazzo di modo di raccontare è mai questo? “
Non se ne abbia a male, lettrice/lettore, si tratta di un procedimento
definito flash-forward; in senso inverso e opposto al più comune flash back.
Chi narra si permette un salto in avanti
oppure all’indietro … La narrazione continua, ma la memoria oppure la
fantasia anticipano o ricordano …]
Lo sformato di melanzane, patate e carne, che in certi casi diventa emblema
simbolo esclusivo della cucina greca, (ma c’è ben dell’altro…) era stato
gustato e gradito.
Intanto l’ipotesi di prosecuzione delle indagini aveva buttato lì un
percorso a zig-zag, cioè a casaccio… Le briciole di informazioni avevano ancora
un carattere abbastanza vago. Definendo il tempo libero della “ricercata” (sia
preso il termine in senso buono) come un generico girovagare, andarsene a
zonzo, di qua e di là… la fanciulla/donna si era limitata a denotare la sua
carenza di informazioni dettagliate e precise.
E non trattandosi, a onor del vero, di una vera e propria indagine, ma
di una generica ricerca nei confronti di una persona, poteva anche andar bene
così.
E anche ai fini della presente narrazione, che ambirebbe ad assumere
connotati di “giallo”, ci si può limitare, per il momento, a una ricerca
generica, alla buona, a casaccio.
Un vago, stentato e incerto solicello rendeva la temperatura
ambientale, se non primaverile o estiva, quantomeno sopportabile. Perciò si
optò ancora per la due ruote.
Il coprigambe, impermeabile e dotato di pelo sintetico, sinora tenuto
ravvolto e arrotolato contro lo scudo anteriore sotto il manubrio, venne
srotolato. E fu estratta la componente complementare, per le gambe del
passeggero posteriore.
Per brevi spostamenti tali protezioni potevano risultare eccessive: ma
averla riattivate poteva denotare più evidente la prospettiva di fare durare
più a lungo e per distanze più considerevoli il viaggio.
Attraverso il vecchio ponte di ferro sul Ticino, l’ingresso nella
Lombardia e nel Varesotto. Via Gallarate, poi quei leggeri tornanti che
sfioravano l’imboccatura per la Malpensa. Ma proseguendo dritto.
Non mancavano, anzi pullulavano a macchia d’olio, complessi agglomerati
classici nell’aspetto e nella struttura che denotavano centri commerciali.
Iperstore. Mega strutture galattiche variamente articolate. Dal reparto
abbigliamento; calzature; elettrodomestici telefonia mobile compresa; seriali
ristoranti all’americana per braciole, costolette, asado spacciato per
argentino, stinchi di maiale e quant’altro…
Disturbante, l’odore che emanavano al passaggio tali vivande più o meno
alla brace o affumicate, naturalmente venne evitato. Avendo da poco pranzato
lautamente. Preferendo invece, secondo le intenzioni progettuali, i superstore
non alimentari. I reparti femminili: un tripudio di tailleurs, attillati
calzoni elasticizzati, bolerini, maglioni di cachemire e non, collant,
biancheria intima di varie fogge e colori, fino alle scarpe. Da quelle
sormontati zeppe altissime per alzare e sollevare la statura della indossante.
A quelle invece nu-pied: con vari morbidi finimenti ad avvolgere piede e
caviglia. Talvolta arrampicate su fino al polpaccio valorizzandole visivamente
oltremodo.
Più in là: gioiellerie, oreficerie, bigiotteria.…
Quindi: parrucchieri, estetisti, massaggiatori…
Centri benessere. Spa.
Da quando il narratore qui protagonista, aveva assunto il ruolo
complementare di pseudo detective, aveva imparato un po’ alla volta a
girovagare senza capo né coda tra strutture di vendita di questo genere. Sinora
evitate e fuggite con grande fastidio schifato.
Ma le probabilità di riuscire magari a scovare, rintracciare,
raggiungere la chioma rossa in fuga, suggerivano anche di ricercare posti del
genere.
Si erano già persi gironzolando tra le casotte seriali e omologate
sparse tra le risaie. Girando praticamente proprio a vuoto.
All’imbocco della Valdossola la grossa chiesona e la bettola osteria
odorante di vinaccio scadente. Un modesto alloggetto pied-à-terre …
Non è che fosse poi così davvero importante, né per la ragazza né per
il suo cavaliere accompagnatore, trovare a tutti i costi quella persona.
Ma, di fatto, era stato un caso fortuito, che aveva fatto scattare il “la”
per quegli imprevisti, occasionali, ma discretamente graditi incontri
gastronomici e di colloqui verbali, linguistici e di altro genere. Per dirla
fuori dei denti: Filippa era molto contenta di avere ritrovato con una sempre
crescente assiduità quel suo vecchio e insieme giovane amico contatto.
Lui era, a dire il vero, e più che altro per darsi un contegno,
impegnato e occupato a fare il narratore/detective. Però, come ogni single
maschio che si rispetti la buona cucina gli piaceva e gli andava esattamente a
fagiuolo. E sapeva e riusciva a mettere a frutto quel gradevole ritrovato
approccio femminile: dicendosi: avrei potuto anche, magari, cercarla prima io…
Ora c’è… Finché dura questo menage, mi va abbastanza bene.
E fu, proprio in quel modo, girando senza meta e a casaccio, che
l’occhio di lei intravedesse, tra la folla frenetica brulicante in quegli spazi
di vetri, luci e paccottiglia varia, una macchia attribuibile a capigliatura,
che ostentava capelli rossi.
All’ingresso di uno degli innumerevoli esercizi affiliati, outlett,
franchising, si intrufolarono. Lui, per la sua più alta statura,
assunse l’incarico di seguire la macchia rossa dei capelli.
Per un po’, non riuscirono a scorgere il profilo o di faccia chi ne era
proprietaria…
Girata e voltata come era verso giovani uomini e donne, che con
seduzione, garbo fin troppo eccessivo, maniere professionali raffinate, cercava
di compiacere la nuova acquirente. Seguendo e cercando di interpretare il
prevenire i suoi desideri e la sua ricerca.
Un piccolo approccio, vago, incompleto, per farle dire cosa cercava… E
poi buttandosi a pesce e al volo a mostrare di avere intuito l’oggetto della
sua ricerca. Prontissimi, però, a cambiare direzione, ogni volta, inseguendo i
pensieri che provavano, cercavano, simulavano di avere telepaticamente intuito.
Confermando che lei, a quanto rilevavano, aveva degli occhi gusti….
Secondo la modalità, leccosa, di complimentarsi con l’acquirente per il
suo orientamento ogni volta che costei ne mutava l’indirizzo e la direzione.
Ormai le erano alle spalle.
L’abbigliamento che era visibile posteriormente, poteva anche riferirsi
a lei.
Non si riusciva a intendere con precisione la voce e l’accento.
Purtroppo, bisogna pur dirlo alla fin fine, si accorsero infine che la
voce era decisamente diversa. E quando la acquirente dubbiosa aveva seguito la
mano della commessa verso una vetrinetta, girando leggermente lo sguardo
rivolto: si accorsero assolutamente che non si trattava di lei…!
Parzialmente rassegnati. Ma senza perdersi d’animo… Mossero
all’indietro i propri passi introducendosi in un nuovo hangar, tempio,
cattedrale del consumo…
La mano femminile, stava stringendo il suo
braccio, cercando di confortare se stessa e il compagno di ricerche e di
indagini.
Alla prossima… Concepirono e pensarono
all’unisono. Da qualche giorno infatti un legame empatico e forsanche
telepatico, favoriva i loro pensieri paralleli, che pertanto muovevano nelle
stesse direzioni.
Ma l’avrebbero poi alla fin fine rintracciata,
trovata, incontrata e messa in contatto con la Fardelli&C.?
Boh… Difficile o improbabile una risposta.
Ma per il momento andava bene così.
Lui aveva sempre in mente l’espressione di qualcuno, che l’aveva
affascinato:
“nel viaggiare, spostarsi, andare, non è tanto importante la
destinazione che ci si prefigge di raggiungere e lo scopo… perché a dire il
vero, la vera meta di ogni viaggiare è il viaggiare stesso…” (E forse
l’espressione viene da “L'alchimista”
di Paulo Coelho).
MATILDE NON ABITA PIÙ QUI?
Cap.3.
Era
stato ormai quell’abbrivio, dell’andare, andare, andare ancora continuamente
senza meta effettiva. Mentre l’aria si faceva più fresca, e stava calando
lentamente il buio. Quella specie di Sherlock Holmes, di Monsieur Poirot, di
Dottor Watson, cavalcando l’eccellente cavalcatura a due ruote giapponese aveva
trasportato, era andato allontanandosi sempre di più dal luogo di partenza.
Portando in groppa la fanciulla. Lei teneva celati i suoi corti capelli nero
corvini, sotto il casco che le teneva tiepida la testa.
Si erano infilati nella serie infinita di
paradisi degli acquisti. Superstore. Mega store. E via dicendo. Lei ci aveva
provato, ma solo qualche volta, all’inizio, a riportare il discorso sullo scopo
di quel peregrinare.
Ogni volta, lui coglieva la palla al balzo,
per divagare e allungare la navigazione nel ricordo.
I tre
laghi, di Varese, di Comabbio, di Monate… Qualche volta ricordava che nelle
giornate limpide dalla parete che porta su al Boden, e dal balconcino con la
madonnina, li si poteva distinguere, tutti e tre. Talvolta, addirittura,
compariva anche quello minuscolo di Mergozzo.
E, di
Varese, aveva accennato che c’era andato da bambino con la vecchia zia paterna.
Su all’ospedale. Da quella parente suora, ricoverata, praticamente immobile e
invalida per la sua galoppante osteoporosi.
Ho anche, giù al convento, da un’altra
suora, madre badessa, che li aveva invitati in una saletta spoglia, tutti soli,
a consumare un pasto frugale. Monacale. Quasi ascetico. Un saluto, un segno
della croce come esorcismo. Qualche saluto in un codice di riferimenti a lui
bambino il ragazzo incomprensibile. Poi il treno li aveva riaccompagnati a casa.
A Vergiate,
con un salto cronologico epocale, quell’ingrosso di legnami da opera.
Il progettino schizzato descriveva
minuziosamente forma, dimensioni, e strutture dell’occorrente. Ci si era
fermato un bel po’. L’architetto locale aveva preso appunti.
Con una calcolatrice a batterie in quattro e
quattr’otto aveva ipotizzato i costi complessivi. Trasporto compreso.
Nel
salone e nei locali vuoti erano stati poi depositati, settimane dopo, travi,
assi, vari profilati. Quasi da solo aveva poi costruito per settimane i
soppalchi nella casa del 700.
Una
balconata con ringhiera. Sulla parete retrostante agganciati a strutture
metalliche immurate tutti i ripiani.
E
poi la scaletta per arrivare in alto. D’altra parte c’era un soffitto
altissimo. Aveva già in mente tutto quanto. Se l’era visti prefigurati
immaginati. Perciò progettati.
Vergiate.
Il nome gli aveva riaperto il film mentale del ricordo.
Filippa
ascoltava tutto quanto, e perciò anche questo.
La
descrizione vivida le aveva fatto immaginare e vedere.
Aveva
potuto anche intravedere di quel soffitto altissimo del salone tardo barocco, i
cassettoni di quercia antichissima. Ormai quasi fossili. Di colore castano e in
alcuni tratti addirittura tendenti al nero.
Lei non c’era mai stata. Lui ci aveva
abitato per anni. E abitava sempre oltre che nella realtà presente anche nei
propri ricordi.
Quando
ormai tendeva al buio, riattraversarono il vetusto ponte di ferro sul Ticino.
Lei
si fece una doccia.
Tornando
nella sala-cucina, ancora umida nell’accappatoio verde, con un sorriso lo
invitò a riaccendersi la pipa.
Poi gli si sedette a fianco sul divano.
Erano
partiti per la tangente. Avevano girato a zonzo anche loro. Praticamente all’infinito.
Si erano intenzionalmente persi. Lei trascinata avvinghiata al suo giaccone da
dietro sulla moto. Avvinghiata e trascinata nelle soste alle parole racconto
che lui regalava.
Aveva
ora appoggiato sulla spalla di lui la testa dai corti capelli scuri.
Forse
non erano stanchi. Né l’uno né l’altra. Erano ancora in pallone. Nella nuvola
dei chilometri. Nell’aria fresca che entrava dall’apertura del casco di
ciascuno.
Galleggiavano. Soddisfatti.
E
intanto, la situazione e l’obiettivo di partenza erano ormai andati fuori fuoco.
E neppure si poteva dire che fossero
compiaciuti e soddisfatti di essersi reincontrati. Perché, forse, a dire il
vero, si erano e si stavano quotidianamente sempre di più incontrando per la
prima volta per davvero.
Allungò
le labbra verso la sua pipa accesa. Bagnò di saliva il cannello che lui le
aveva porto. Benché non fumasse mai gonfiò le labbra di una boccata di fumo
saporoso.
Facendo una zoomata all’indietro, parevano
un uomo e una donna che avevano scoperto la reciproca esistenza. La zoomata la
faceva ciascuno di loro due. Si guardarono dal di fuori di se stessi. Si
compiacquero. Trovarono gradevole la cosa.
Poi
lui depose la pipa sul tavolino che aveva davanti.
Le
cinse le gote. Infilò le dita di entrambe le mani nei corti capelli.
E
baciò la presenza. Lei socchiuse gli occhi.
Erano
ormai entrati in un’altra storia.
Una
storia del tutto nuova.
Il
cast dei personaggi protagonisti era stato rimaneggiato e modificato.
Una
presenza assente si era volatilizzata.
Per
cenare lei lasciò cadere a terra l’accappatoio ancora umido.
Che rimase lì, accanto ai jeans di lui.
Alla sua camicia e a tutto il resto del suo abbigliamento.
Solo
il mattino successivo, sporgendo gli sguardi dal piumone che li aveva
accarezzati e accompagnati nel viaggio onirico e sensuale, all’unisono, prima
mentalmente, poi verbalmente prima l’uno poi l’altra pronunciarono un commento
categorico:
«…
Matilde… Per davvero… Non abita proprio più qui…»
E risero dolcemente. Di gusto.
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