MATILDE NON ABITA PIÙ QUI-epilogo.
Non c’è
come una città che si appresta subdolamente all’evento natalizio, per sembrare
ancora più vuota, squallida, fasulla.
Indossava
un giubbetto di velluto verde acqua. Sui corti capelli neri a zazzera: un
cappelluccio a maglia, sormontato da un pon pon pure verde. Rideva dentro di
sé, compiaciuta per il proprio aspetto di ragazzina fuori tempo.
La
città dei risi si era abitualmente addobbata di collane a luminarie. Che
volevano apparire frange al vento. Nel pieno della crisi energetica oltre che
ambientale uno stupido spreco di energia elettrica. Al quale facevano
compagnia, non sempre all’unisono e sincronizzate, musichette abituali che
facevano il verso agli zampognari delle favole.
Il
sorriso della giovane donna cominciò a velarsi di delusa malinconia.
Aveva voluto stare al gioco. Uno dopo l’altro
aveva infilato i tappeti di moquette degli ingressi dei negozi. Tabaccherie,
che offrivano in vetrina assortimenti di radica di pipe, buste di pelle e
similpelle, portatabacco; borsetterie; camicerie di lusso; librerie…
Entrava
ed usciva sempre più delusa. Accolta all’ingresso e alla partenza dalle
pantomime di maniera. Pronunciate con quell’accento per metà piemontese per
metà lombardo.
Reggendo
in mano sacchetti di carta argentata decorati di stelle comete e altri fronzoli
banali, si decise nella folla a riavviarsi verso il parcheggio. Lontanissimo.
Guardò
sul cellulare la mappa Google per trovare la via dove abitava quell’uomo
straordinario, assurdo, folle, adorabile che sapeva regalare allegria e
disperazione. Con le sue parole. Il suo linguaggio. L’uso sapiente e magico
della lingua.
L’euforia
entusiasta stava lasciando il posto dentro di lei ad una sfumata mestizia.
Rivedeva
gli oggetti che mani servilmente sorridenti avevano incartato e confezionato.
Quando
sono al videocitofono fu accolta dalla voce calda che l’immagine rimpicciolita
all’infinito le stava regalando. E diceva: ma certo, sali che ti stavo
aspettando. Ti ricordi il piano? Si limitò con voce insicura e incerta a
restituire il mormorio di un: ciao. Salgo subito.
La
sauna calda riempiva l’abitacolo dietro la porta di plexiglas.
Uno
alla volta tolse gli abiti che indossava. Il giubbetto verde, i calzoni di
maglia attillata, gli scarponcini con la stringatura alta, il maglioncino che
regalò la vista dei suoi piccoli seni senza reggiseno.
Lui
si aggirava nel suo accappatoio bordeaux.
Che
lasciò cadere a terra tendendole la mano per farla entrare a gustare il vapore.
Un caldo intenso veniva dal secondo spazio dell’abitacolo.
Tappezzato di perline di legno. Da una ciotola-mastello di legno, con una
mestola prendeva acqua che lasciava poi cadere nel braciere di pietre roventi.
Nuovo vapore oltre quello che già alitava come una
nebbia densa e calda dietro la porta bombata di accesso.
I corpi, inzuppati di calore vaporoso e di sudore,
si strofinavano scivolosi l’uno accanto all’altro.
Accordi si accompagnavano alla nebbia
riecheggiando Vivaldi e poi Cherubini.
In mezza penombra, con gli accappatoi slacciati,
si lasciarono andare supini sul vasto letto.
Qui, per fortuna, l’atmosfera natalizia non aveva
osato entrare.
Era entrato il ricordo di quando, diversi anni
prima, lei si era lasciata incontrare, conoscere. Ora, la fotografia del
presente, era invece molto nitida rispetto a quelle reminiscenze sfumate via.
Lei afferrò con la sua piccola mano quella grande,
solida, dalle dita lunghe che lui teneva appoggiata sul morbido del letto.
Avevano insieme un seguito un fantasma. Una specie
di sagoma umana, fatta di voce, sguardi, capelli…
Ora esso era totalmente svanito. Volatilizzato.
La voce di lui pronunciò stentorea:
«Matilde, non abita più qui… Né in nessun altro
posto… Probabilmente non è mai esistita… Era forse soltanto un modo di dire…»
Nell’assentire la minuta capigliatura nera, si
mosse. Sollevandosi leggermente dalla posizione in cui stava. Accostò le
proprie labbra regalando il suo fiato e la propria saliva a chi soprattutto
condizione sociale è un po’ una la stava aspettando.
«… Sì, credo proprio anch’io che in questo modo di
dire, noi abbiamo giocato insieme a inseguire un’immagine evanescente. Che
probabilmente, anzi, di certo non è mai esistita…»
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