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venerdì 17 agosto 2018

VEDOVANZA? TUTTO SCORRE COME UN FIUME…


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TUTTO SCORRE COME UN FIUME…" [Panta rei os potamos; Eraclito]
Ci stava ripensando mentre girava come era sua abitudine a scattare foto. Gli erano sempre piaciuti i corsi d'acqua limacciosa dei canali irrigui.
Come spesso facevano in quelle occasioni quando avevano terminato di sistemare tutto si trovavano per fare un pasto frugale. Ognuno portava qualcosa. Lui aveva portato dei salami della duja, del pane casereccio fatto da lui e una bottiglia di vino. Lo teneva sempre in casa per cucinare perché ormai, da un sacco di anni era diventato assolutamente sobrio.
A tavola, oltre le battute scherzose che saltavano fuori, in diversi avevano accennato a qualcosa. Ma poi gli argomenti erano caduti e nessuno ci si era soffermato. Aveva invece acceso interesse intorno e a lato del discorso della coppia, quello di quando qualcuno dei due viene a mancare e l'altro gli sopravvive. All'inizio battute interlocutorie. Scaramantiche. Come a esorcizzare l'idea che prima o poi potesse capitare a ciascuno di noi. Poi, con la sua voce pacata e meditata, uno dei commensali aveva cominciato a raccontare.
Di un amico da cui aveva avuto le confidenze. La moglie era stata gravemente malata ed era peggiorata sempre di più. Male inguaribile. Situazione di salute irreversibile. La poverina come spesso capita in questi casi, faceva progetti, come ad esorcizzare quello che tutti intorno lei sapevano. E che cioè aveva ancora pochi mesi di vita.
Il compagno e marito le era stato vicino. O così almeno aveva dato a vedere. Aiutandola come meglio era riuscito. Ricevendo e accogliendo ogni volta le amiche della moglie che andavano a trovarla; ex compagne di lavoro, o conoscenti.
Tra le altre una in particolare. Alla quale lui aveva dedicato riguardi gentilezze e sguardi attenti. O quantomeno era questo che lei aveva voluto credere, sperare e ritenere. Gli era sempre continuamente insicura insoddisfatta di quello che stava vivendo. Anche quando aveva creduto essere la situazione sempre sognata. Aveva avuto modo anche lui, il narratore,  di conoscerla quando  era andato a sua volta a cercare di dare aiuto e conforto. Conosceva perciò la visione della vicenda, sia come gliel'aveva raccontato il marito, sia come l'aveva vista lei.
Naturalmente solo la malata non era riuscita a capire cosa stava avvenendo. Rimanendo lo scuro di quella mostruosa macchinazione. Troppo presa dalla propria angoscia esistenziale e della propria sofferenza.
Era imbarazzante per i due. Per lei andare a trovarla sapendo che avrebbe avuto gli occhi di lui addosso. E per lui ogni volta guardare se nel gruppo delle amiche e conoscenti c'era anche quella a cui andavano le sue attenzioni e i suoi pensieri.
Naturale, diceva ora il narratore a tavola, che anche la morte e quell'evento luttuoso dovevano essere elaborati e superati. Magari dopo, pensava lui, solo dopo che fosse finita l'agonia…
La situazione restava comunque sospesa a mezz'aria. Incombeva come un pronostico, un destino previsto e concordato. Atteso. Da una parte perché sarebbero finite le sofferenze della malata. Ma dall'altra, e questo era davvero imbarazzante e disturbante, perché si sarebbero chiariti i termini della situazione, che era nata così quasi per caso…
«Ma scusa, tu hai raccontato ora che lui aveva fatto capire e fatto intuire all'amica della moglie moribonda che lui la guardava con interesse… Oppure a lei così era sembrato … Ma non ti pare una cosa un po' strana, malata, perversa? E queste cose te le ha confidate proprio lui? E anche lei da parte sua?
E anche l'amica compiacente, gli aveva fatto capire senza ombre di dubbio, che sperava nella liberazione dalla sofferenza da parte dell'amica, ma che sperava anche di occupare il suo posto? Oppure soltanto era rimasta sulle sue sperando che qualcosa capitasse confermando le sue speranze e aspettative?
Ma dai! Non posso crederci…! Era come se entrambi stessero progettando e attendendo che quel letto di sofferenza si liberasse presto… Oppure un solo dei due… Lei? Insoddisfatta dei suoi vissuti e sempre alla ricerca del nuovo? Per poterlo occupare in altro modo? Ma a questo punto era malato perverso e cinico lui? Oppure il cinismo era anche , soprattutto o forse soltanto dentro di lei? Come faceva costei a pensare di andare a trovare la tapina, avendo il retropensiero che avrebbe incontrato gli occhi dolci, con quel leggero sorriso, che lei credeva di scorgervi, da corteggiamento luttuoso, che lui aveva pronti nei suoi confronti…?»
Erano emersi punti di vista diversi e contraddittori. La vita non deve finire. Se qualcuno per sua sventura se ne va, chi rimane non deve votarsi al lutto definitivo.
No, diceva qualcun altro, se davvero erano una coppia e avevano una relazione affettiva, autentica, non avrebbe potuto o dovuto… Magari è una cosa diversa se la cosa fosse nata dopo ma non durante la situazione imbarazzante che durava infinitamente lungo.
Qualcuno aveva raccontato di un amore meraviglioso, infinito, sublime e unico, nato e assorto come un regalo autunnale in età matura. E poi la malattia aveva colpito lui. L'agonia era stata lunga. Lei lo aveva accudito amorosamente fino al momento del distacco doloroso e feroce. E poi, diversi anni dopo, lei si era posto il problema, quando lui ormai era scomparso, se lei dovesse per sempre rinunciare a un rapporto affettivo, e motivo, sentimentale e anche erotico. Ed era molto combattuta nel cercare di prendere una decisione.
Poi per fortuna, c'era stato chi era riuscito a cambiare discorso. Non prima di aver detto che l'uomo che si candidava alla vedovanza, era stato forse cinico, ma cercava in quel modo magari anche di inventarsi una speranza futura. Con la quale edulcorare il lutto imminente.
E aveva anche aggiunto che la nuova donna che aveva sperato di essere la prescelta, era stata profondamente disumana, cinica, mentre guardava assottigliarsi la figura e le risorse vitali di quella che era stata un'amica cara, a pregustare di prendere il suo posto.
Non offendendosi mortalmente per sé e per l'amica ignara e all'oscuro di tutto ,per le avance ricevute, o come comunque lei aveva voluto interpretarle.
Mentre girava per i corsi d'acqua, provava immaginarsela l'amica della meschinella appena defunta. A sognare di essere cercata da quell'uomo che probabilmente neppure l'aveva notata. E che magari aveva confidato agli amici, che finalmente si stava liberando di quella zavorra ingombrante. Gettandola a mare come avviene per i migranti. E che era soltanto infastidito delle amiche che andavano a trovare la malata agonizzante. Perché notava nei loro atteggiamenti curiosità e morboso desiderio. Dicendo che assolutamente una nuova compagna, da letto o anche per un'avventura, non l'avrebbe cercata tra quelle lì. Le colleghe. Che le trovava soltanto bruttarelle, e non assolutamente di suo gradimento. Anche se aveva notato che qualcuna gli ronzava intorno. Prima del lutto. E anche dopo. Ma lui aveva sempre preferito cercare di non farle capire di averla notata mai. Per pudore. Gli ricordava troppo quella che riteneva di avere appena buttato a mare. Ed era come se sentisse il fantasma della defunta gironzolare intorno. In quella personcina modesta da cui si sentiva guardato con golosità. Non corrisposta. Perché tra l'altro per nulla gradevole o attraente.
Il pasto era stato abbastanza ricco. Quel discorso scabroso aveva finito per essere messo da parte. Almeno lì a tavola. Ma continuava a ribollirgli dentro. Tanto che quando uno dei commensali gli aveva chiesto se sul suo tablet era possibile vedere i risultati dei mondiali, col tono abbastanza asciutto aveva detto che lui aveva disabilitato il proprio dispositivo. Adducendo che lui era contrario perché non li amava a tutti gli avvenimenti sportivi.
Si era sentito un po' stronzo nel dirlo. Ma così era andata.
I canali, con la loro acqua verde limacciosa, viaggiavano con un leggero increspamento di onde. E sarebbero andati a irrigare le campagne. E soprattutto quegli immensi reticoli delle risaie di cui la sua città era circondata.
Aveva sempre sentito una grande attrazione comunque per i corsi d'acqua. Il fiume Ticino. Le lanche. Tutti i corsi d'acqua, fiumi o torrenti. I canali. Ci si sentiva attratto. Magnetizzato. E ogni volta si divertiva ad andare con il suo scooter a riempire di immagini fotografiche la sua infinita raccolta.
Perché proprio l'acqua, pensava?
"Tutto scorre come un fiume…" [Panta rei os potamos; Eraclito]
Il fiume come metafora dello scorrere del tempo e della vita. Un desiderio e un'attrazione vitale quindi. Senza porsi nessun problema dubbio o domanda, per se stesso, di quello che potesse avvenire dopo. Non se lo voleva assolutamente domandare. Se il suo amore sarebbe sopravvissuto casto per sempre dedicato in esclusiva alla donna che ora amava immensamente. Nel caso malaugurato che fosse mancata. E pure, se fosse mancato lui, non lo disturbava per niente se lei magari dopo un periodo per elaborare il lutto e la mancanza, avesse rivolto le sue attenzioni amorose verso qualche altro uomo.
Ma un fiume, un canale, non può e non deve assolutamente progettare con quali altri corsi d'acqua mescolarsi poi, nel caso assoluto disperato e malaugurato che l'acqua che aveva sempre raggiunto fosse stata per qualsiasi motivo annullata.
Riordinò le fotografie scattate. Eliminò alcune che risultavano dei doppioni inutili. E quelle che avevano dei difetti di inquadratura o di messa a fuoco.
Poi, immagazzinò in un angolo della propria memoria emotiva, le riflessioni che gli amici e compagni avevano tirato fuori.
Lui sapeva che non voleva domandarsi cosa sarebbe stato dopo di lui.
E  aveva per il momento la certezza assoluta che non avrebbe mai rinunciato a lei, qualsiasi evento fosse potuto accaderle. Ed esorcizzò questo riflessione, dedicandole un pensiero amoroso.



domenica 5 agosto 2018

UN VIAGGIO A RITROSO NEL MIO TEMPO … CON LO SCOOTER





UN VIAGGIO A RITROSO NEL MIO TEMPO …
               CON LO SCOOTER

Ed era stato un gioco estremamente piacevole. Festeggiare la rimessa in piena efficienza su strada del mio mezzo a due ruote. Il casco nuovo aveva la parte anteriore sollevabile sopra la fronte. Per cui non c'era più quella tortura del caldo soffocante anche sul volto. La temperatura era elevatissima ma non era per nessuno una novità. In Svezia giorni prima erano riusciti a fare il bagno in costume, come ricordavano di aver fatto solo da noi nel Mediterraneo. I ghiacci dei poli e quelli dei ghiacciai andavano sempre di più assottigliandosi e liquefacendosi. Ma non andavo a fare un giro di ricognizione metereologica.
Una borraccia termica da campeggio conteneva dell'acqua tonica ghiacciata. Che poi avrei preferito decisamente sostituire con l'acqua fresca di neve.. Preferendola. Un vecchio zaino in cuoio un po' consunto stava agganciato davanti alle mie gambe sullo scudo. Il navigatore faceva bella mostra di sé sul parabrezza. E la voce sintetica ricordava quando bisognava girare a destra, a sinistra, e  fra quanti metri…
Anche se la voce stentava a farsi sentire per via del casco che mi copriva le orecchie. A dir la verità non sembrava neanche facesse caldo. Avevo cominciato ad andare. E andare. E  andare… Il telecomando Telepass nel taschino della camicia, in autostrada faceva alzare la sbarra appena arrivavo. Insomma ovvie banalità, ma eccezionali per questa prima occasione in cui inauguravo e insieme festeggiavo.
Forse le cose, i fatti e gli avvenimenti più che essere belli, straordinari, in sé e per sé, lo sono o lo diventano a seconda di quello che noi regaliamo loro investendoli di significato.
L'avevo fatto fino a qualche anno prima. Con il vecchio scooter al quale avevo applicato l'impianto gpl. Perché ormai era diventato incompatibile per la circolazione; e solo così potevo ancora girare. L'apparecchiatura proveniva da un paese dell'est europeo. La tecnologia lasciava molto a desiderare. Dopo aver fatto un po' di kilometri spesso perdeva colpi il motore. Bisognava fermarsi. Spegnere e poi riaccendere e ripartire. Raggiungeva i 120 km/h e anche di più. Ma le continue soste rallentavano la tabella di marcia. Ora con il mio nuovo compagno di viaggio a due ruote, mi contentavo di velocità più modeste. Tra gli 80 e 90 orari, con punte addirittura oltre 100… Ma in quest'ultimo caso volevo illudermi : probabilmente mi trovavo in discese autostradali. Ma era tutto quello che ci stava dentro e dietro che dava sapore e significato rituale. Qualche anno fa come pure ieri… Uscito dall'autostrada imboccavo la superstrada da Gravellona Toce. E dopo poco i primi cartelli indicavano l'uscita per Ornavasso, poi Candoglia, Mergozzo… E più che cartelli stradali indicatori erano pezzetti di ricordi vivi da riscoprire e rivisitare.
La casa di Ornavasso, a mezza costa, sulla strada che portava al santuario della Madonna del Boden; in faccia alla parrocchiale di San Nicola. Ricordo che le campane suonavano le ore, le mezz'ore e anche i quarti d'ora… I primi tempi si faceva fatica a farci l'abitudine, specie di notte. La chiesa e il campanile di marmo e granito a macchie brune, l'avevo vista migliaia di volte affacciandomi alle finestre o dal terrazzino… O dal terrazzone lastricato. Ricolmo di lussureggianti alloro. Arbusti di rosa canina. E qualche palmizio. Da questo grosso terrazzo dei gradini portavano giù al cancelletto. Di ferro vecchio. Cigolante. Che però diventava un'ottima altalena per andarci avanti e indietro.
Da quei gradini la salita all'ampio cortile lastricato posteriore. Ricolmo d'uva americana che nessuno curava più per cui i grappoli spesso rinsecchivano per la filossera.
Gli acini buoni erano dolcissimi più delle caramelle. Le piccole meline della rosa canina, non bisognava assolutamente mangiarle. Contenevano dei lunghi filamenti che potevano dare grossi pruriti prima dell'evacuazione. Lo chiamavamo "gratacù" proprio per questo prurito all'ano. Ma nonna Emma sapeva raccogliere le e con le sue mani sapienti e magiche le faceva diventare una leccornia. Trasformando le in marmellata. Con tutto la nonna sapeva fare marmellate. Anche coi petali di rosa.Con le sue mani un po' deformate dall'artrosi, ma magiche. Si curava con prodotti naturali, canfora e altre pomate che avevano col profondo intenso odore di mugolio e simili. Una volta dopo la morte del babbo avevano rinvenuto in cantina due damigiane di vino di Ghemme. Una più piccola, l'altra più grande, erano passati molti anni per cui si erano inaciditi quei vini prelibati. Con pastiglie di china, il medicinale magico panacea contro tutti i malanni, lei lo aveva trasformato in un nettare divino chinato. Aggiungendo dello zucchero.
Ci ero ripassato a rivedere la casa di fronte a San Nicola. Da quando era stata venduta aveva perso quell'aspetto demodé … Di un villino austero di fine ottocento. Intonacato. Ma con le finestre piccole come si usavano in montagna per avere meno dispersione termica. E il tetto di pesanti lastre di beola sorrette da travi di rovere.
L'acquirente aveva importato con la violenza e il cattivo gusto che aveva nel suo DNA, lo stile delle case  colorite del Varesotto. Ci ero passato una volta… Ero scappato subito. E per molte ore, anzi per molti giorni, anzi ancora adesso soffro la ferita di quella visione… A maggior ragione perché i lavori erano ancora in corso… Ferite aperte, non ancora cicatrizzate…
Poi continuando lo scooter mi faceva guardare l'acqua densa grigio verde della  Toce. Nome di fiume femminile nella toponomastica locale. Tinta così dalle polveri e dai sedimenti di micascisti .
In alto sopra Candoglia i buchi nella parete montuosa delle cave del marmo del Duomo di Milano. Dalla superstrada non si vedeva ma sapevo che appena dietro le fronde c'era la scuola media annessa all'Istituto tecnico per marmisti. Dove avevo cominciato il mio percorso di pseudo professore. La passerella una volta fatta solo di cavi d'acciaio grugniti semiruggini, era stata rinnovata forse addirittura in muratura. Ma dovevo andare oltre. La piana di Pieve Vergonte arrossata dalle polveri tossiche della Rumianca. Le polveri che avevano ucciso lentamente il mio vecchio amico compagno Oreste Torriani. Inviso alla direzione della fabbrica. Come pure al suo stesso sindacato di cui era stato e continuava a essere il leader indiscusso. E anche dal partito per il quale aveva combattuto da partigiano.
Oltre al compagno Oreste pensai al mio exalunno di quando ci aveva insegnato lì, Valerio! Anche lui ormai passato in un'altra dimensione. Si era sparato un colpo al cuore insoddisfatto della situazione politica, culturale e umana…
Ma erano ricordi solo di sfuggita. Qualche sosta ogni tanto per una fotografia scattata col tablet. L'afa creava una patina di foschia sulle sagome dei monti. In mezzo al verde, le sempre più rare abitazioni col tetto di beola, avevano finito per lasciare il posto, come era avvenuto nella casa della mia infanzia di Ornavasso, a informi costruzioni brutte omologate seriali…
Ma avanti. Non c'è tempo per la nostalgia. Non c'è tempo per fermarci, piangersi addosso, un sorriso, un pensiero dolce affettuoso, e via…
Imboccando poi la valle Antigorio, la nuova galleria di 7 km, gelida, freschissima… Come i vagoni con aria condizionata sui treni dei giorni scorsi per Milano. Aveva preso il posto di quel percorso a tornanti continui che avevo con estrema difficoltà transitato, prima con l'auto e la roulotte al traino, e poi con il camper. A Baceno, con una stretta al cuore, avevo girato a destra per Premia. Ma qualche volta ci tornerò a fare quell'ultimo tratto della valle antigorio che porta a Croveo, a Goglio fino alla strada da percorrere a piedi per il Devero.
La cattedrale romanica di San Gaudenzio a Baceno, sorella gemella di San Nicola di Ornavasso.
Un'occhiata veloce di sfuggita al vallone tenebroso dantesco degli Orridi di Uriezzo.
Le terme di Premia, che mi avevano detto portare le stesse acque provenienti dalla Svizzera Leukerbad.
Ma non c'è tempo per fermarsi. Ora almeno. Il mio viaggio di corsa continua.
Ricompaiono le abitazioni con i tetti di beola. Uno strano incongruo rasquart sollevato sui funghi di pietra come in Val d'Aosta.
E le scritte della toponomastica che mescolano la nostra lingua all'idioma vallese .
E infine… Vista da sotto, la Cascata del Toce. Qui il nome del fiume conformisticamente torna ad essere maschile. Il verde. Tanto verde. Un odore di verde intenso. Addirittura un "odore verde".
Quell'odore e quella frescura immensa che avevo descritto anni prima in una poesia in cui ricordavo la corriera con i suoi clacson multizonali, quando andavo con la zia e i miei fratelli su da lei a Croveo. Una poesia in cui giocavo al confronto per contrasto con le corriere simili che avevo trovato molto tempo dopo girando le isole greche.
I rigagnoli della cascata. Sulla massa rocciosa. In una foto da adolescente, ancora senza barba, con gli occhiali, i capelli con un ciuffo vistoso alla James Dean, stavo appoggiato alla ringhiera. Me l'aveva scattata zia Luisa. Che era stato per molti anni la "Signora maestra" di Croveo. Conosceva molto bene quell'uomo asciutto, brusco e segaligno che era il parroco Don Ruscetta. Il prete scienziato viperaro. Insegnava a tutti come dotarsi di un rametto biforcuto in fondo, col quale immobilizzare le vipere, dopo averle riconosciute. E averle portate a lui. Che le faceva morsicare su un piccolo contenitore sul quale aveva posto una membrana forse di carta oleata. Raccoglieva i veleni e periodicamente li portava all'Istituto sieroterapico di Milano. Le sue messe erano messe da corsa. Duravano 10 o 12 minuti in tutto. Diverse volte se sentiva brusio, o qualche bambino in braccio le madri che strillava, interrompeva la funzione. E invitava a non disturbare uscendo sul sagrato.
Con la zia ero stato una volta nella sua sagrestia. In grossi bidoni alla buona grovigli di serpi e serpenti. Col veleno raccolto veniva prodotto l'antidoto per i malcapitati che venivano avvelenati dalle vipere. Delle quali non bisognava aver paura. Inutile mostrare panico. Le si sarebbe spaventate ulteriormente. E allora: zac! Per difendersi avrebbero estratto i loro denti a sciabola iniettando il loro liquido mortale.
Ho ancora in una mia vetrinetta  tra quegli oggetti antichi sopravvissuti a tanti traslochi e
a tante devastazioni di sgradevoli ospiti che ho avuto negli anni, un piccolo contenitore di bachelite marrone. Un rimedio che il prete viperaro, guaritore mago, aveva preparato: il mulasso. A base di nocciolo. Un portentoso rimedio per ricostruire tessuti malati. Come aveva fatto quando una madre sprovveduta aveva creduto di disinfettare una piccola ferita a un dito al proprio bambino, col disinfettante invoca allora: l'acido fenico. E per colmo della sorte di lasciarglielo avvolto sul dito tutta la notte. Il mattino il dito era scheletrico. Ma ci aveva pensato Don Ruscetta.
Qualche notte, dei ragazzi lì in vacanza da parenti si erano infilati su per la scaletta del campanile, suonando sulla tastiera "avanti popolo". Una bravata sciocca. Un rapido cenno nella messa del giorno dopo, con aria brusca e decisamente incazzata.
Nel seicento a Croveo c'era stata l'inquisizione locale, per gli ultimi processi alle streghe con esecuzione.
Nella notte del giorno dei morti era usanza, ancora negli anni 50 e 60, mettere sul davanzale della finestra una tazza d'acqua e qualche boccone di pane. E molti locali erano convinti di avere poi visto sul pavimento il giorno dopo gocce d'acqua.
Non posso dilungarmi oltre, perché la cascata mi sta aspettando. Con le sue fontane di acqua gelata di neve. Meriterebbe un lungo discorso la parlata e il dialetto del posto che mi facevano tanto ridere di gusto e mi piaceva tantissimo.
Boh. Tutto qui. Il mio scooter viaggiava spedito. Ronzando. Le fontane sgorgavano acqua. La mia arsura poteva esserne momentaneamente piacevolmente appagata. Almeno fino alla prossima volta.
E anche la prossima volta mi fermerò a quello che una volta si chiamava bar sport a Premia. Che ero stato con la mia bambina piccolissima che dormiva nel passeggino e beveva golosa del suo biberon il latte. Mentre io mi buttavo sui cibi deliziosi che cucinavano.
E che ancora ho assaggiato proprio ieri. Ma tanto sapevo che avrei bevuto quell'ottima acqua ghiacciata delle fontane del passo della Frua. Che invece di farmi venire una congestione ogni volta mi aiutava in una digestione splendida.
Ci ero stato ancora al bar sport come si chiamava allora l'ultima volta che la mia anziana madre si era lasciata convincere a venire a fare una gita. Era quasi novantenne. Da vecchia artista cantante lirica alla scala, portava sempre i capelli tinti di enné con un buffo colorito rosa. Buongustaia e golosa come me, per pudore diceva che non aveva affatto appetito. E poi con gli occhi che luccicavano di piacere, seguiva il mio esempio sui cibi deliziosi. Chiedendo ogni tanto con uno sguardo un altro buon bicchiere di vino. Lei non beveva l'acqua gelata per digerire… Un viaggio con lo scooter. Apparentemente in una valle lontana 147 km dalla mia afosa, umida e puzzolente di risaie città che si chiama Novara. Ma in effetti, il mio scooter mi aveva nuovamente aiutato a ripercorrere un viaggio a ritroso nel tempo. Nel mio tempo. Ognuno di noi a suo tempo che gli è caro, gradito, e al quale vuole tornare ogni tanto con ricordo. Nostalgico. Che un termine stupendo mi permette di chiamare più che nostalgia: "saudade".
Le numerose foto partivano seduta stante per la destinataria che virtualmente era venuto il viaggio con me, e ora, per quanto scattate senza una vera macchina fotografica, le colloco qui sotto. A commento. Ma io ho sempre pensato, e lo penso ancora, che le foto più belle sono quelle che ci portiamo dentro. Solo qualche volta cerchiamo di bloccarne l'immagine. Ma la più bella è un'immagine mentale.