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giovedì 26 maggio 2016

sui lungomare alberati...

Sui lungomare alberati
col tuo biciclettino minuscolo 
e il mio adulto cercavamo 
con occhio curioso le giostrine 
"ce l'hai ancora un soldino, papo?"
bastava frugare nella saccoccia 
dove suonavano duri di ferro 
i soldini delle cinquecento lire 
che avevo prelevato 
dal portacenere del camper 
una bella scorta
" si guarda ce n' è giusto ancora uno"
dicevo ogni volta e ricominciava 
il tuo sorriso e ripartivano 
bacioni sulla guancia ispida di barba 
e il tuo sguardo diventava terso come il cielo
ora ripasso quei luoghi dell'infanzia 
quando eravamo insieme bambini 
e cercavamo le giostrine sul lungomare 
mentre un fado disperato e accorato 
piange la sua nostalgia 
come la mia qui in terra di risaie 
verso gli occhi del passato 
che galleggiavano ignari di tanta bellezza 
e mi viene ancora da frugare nella tasca 
per cercare altri soldini 
da spendere per l'allegria 
di quell' infanzia quando 
insieme ancora eravamo bambini 
e lo struggimento è forte 
mentre il tempo si consuma 
e i giorni vanno avanti 
inesorabili 

domenica 22 maggio 2016

L’AMORE DELLE TRE MELAGRANE -.12- ricordi e fantasmi

L’AMORE DELLE TRE MELAGRANE -.12- ricordi e fantasmi
Le tre melagrane erano ancora poggiate sulla tavola di pietra.
La ragazza della prima stava ancora raccontando la realtà con occhi dolci e a volte e malinconici altre.
La ragazza della seconda si era solo affacciata un momento per raccontare un sogno gradevole, possibile forse, ma totalmente irreale.
L'ultima melagrana sul bordo esterno aspettava di raccontare la sua solitudine.
Muovendo al vento leggero di maggio i suoi capelli biondi come oro, la prima ragazza continuava il suo racconto.
"-Ma quando tu eri la, in quel posto brutto, i tuoi potevano qualche volta venirti a trovare?
-C'erano regole ferree terribili disumane. La prima domenica del mese con qualsiasi tempo, dovevamo preparare nel cortile vicino alle colonne del porticato delle panchine di legno. Tranne che in caso di pioggia, che allora venivano spostate al coperto dai portici. Freddo, sole, nebbia dovevano servire da incentivo a fare sbrigare abbastanza gli estranei e gli intrusi perché se ne andassero via e lasciassero tutte le teste rapate alla loro prigione di "istituzione totale".
Si stava ad aspettare in una delle stanze squallide da ricreazione o nello "studio".
Un ragazzo aspettava vicino alla portineria e poi correva le scale, si affacciava alla porta e diceva i nomi. Il nome mio e dei miei fratelli tardava quasi sempre a essere pronunciato. Dalle nove alle 12, forse, poi nessuno poteva più attardarsi. Arrivava il cerbero castigamatti con sguardo allucinato e feroce e li cacciava via in malo modo.
Spesso quando mancavano pochi minuti a mezzogiorno, il messaggero gridava con uno sguardo rincuorante: "Nanni, Cecco, Pinuccio…"
Ci andavamo giù con l'anima e il cuore in subbuglio. In un misto di contentezza, di rancore e di rimprovero. Ambivalenti abbracciavamo nostra madre, il suo colorito vistoso, i suoi capelli rossi di henné, l'odore stantio dei suoi cosmetici poveri e alla buona, di bellissima cantante lirica ormai decaduta.
Superati i momenti dei mugugni nostri di rimprovero, prendevamo posto al patibolo della panchina. Ci arrivavano notizie spesso assolutamente insignificanti e inutili. Ho visto la signora tal dei tali e mi ha detto… Mi ha telefonato anche il… La nonna vi manda un bacio e la sua benedizione piena di preghiere…
Un mesto pensiero affettuoso per quella donna austera che passava il giorno a rammendare nella penombra perché la luce le doleva gli occhi. Rammendava, cuciva, e pregava continuamente. Alta, quando stava in piedi ritta, i capelli bianchi in una lunga treccia che le circondava il capo a crocchia fermata con le forcine. Lo sguardo verde grigio, un po' spento, percorso da lievi tremiti del suo cuore gentile.
Prima di venire cacciati via, ci tenevamo stretti tutti e tre la nostra mamma. Che adoravamo. Che rimproveravamo.
E che intanto di nascosto sotto le borsette e i manicotti, passava a ciascuno di noi un pacchetto di carta oleata con dentro le delizie. Panini con la certosa, prosciutto crudo, olive, funghetti, e a sorpresa un pezzetto dal gusto pungente di pesciolini in carpione o addirittura di anguilla marinata.
Impacciati e nascondendoci in qualche modo con le mani, divoravamo quella delizia. Impossibile conservare quel cibo per dopo: al termine della visita parenti venivamo tutti perquisiti. E qualsiasi bene avessimo indosso veniva requisito. Il bottino insieme alle dosi ritenute abbondanti e consegnate settimanalmente per accompagnare il pane della nostra merenda di metà pomeriggio, veniva messo tutto insieme; spezzettato in dosi; e distribuito a casaccio fin dove arrivava al termine dei pranzi in silenzio nel refettorio.
Durante la distribuzione e il consumo del primo, si poteva chiacchierare; ma non troppo forte; altrimenti per castigo venivamo messi in silenzio. Appena arrivava il secondo, e due o tre ragazzi più grandi l'avevano distribuito con degli ampi vassoi di legno con le maniglie, ciascuno si avventava sulla propria porzione, usando soltanto il cucchiaio la forchetta: i coltelli naturalmente erano vietati.
Quindi con uno sguardo gelido e fiero da psicopatico il rettore, faceva suonare un campanellino che teneva davanti a sé.
Appena ottenuto il silenzio, cominciava la lettura: le cose più varie, eterogenee.
Da brani di "selezione dal reader digest” tradotto dall'americano. A brani a volte anche di narrativa. Alcuni addirittura piacevoli e interessanti. Quando era colto dai suoi raptus mistici e tenebrosi, ci leggeva storie terribili di persone decedute, che ritornavano dall'aldilà con luci fosforescenti, occhi infuocati, messaggi apocalittici che invitavano a fare penitenza e redimerci dal peccato. Ero rimasto colpito da uno di questi zombi narrativi che al termine del suo pistolotto funebre aveva addirittura appoggiato una mano su un tavolo di marmo, lasciandovi impressa in profondità l'orma!
Quando di notte nelle camerate ci alzavamo nella penombra per andare a fare pipì percorrendo un lungo ballatoio gelido, ci guardavamo sempre alle spalle temendo apparizioni terrificanti.
Consumati velocemente i pochi minuti a disposizione che mia madre ci regalava, senza certamente cattiva volontà, con ancora in fondo alla gola l'ultimo pezzetto saporito di cibo, tornavamo alle nostre tristi monotone abitudini quotidiane.
Per qualche minuto ancora restava nell'aria almeno per me, quell'odore un po' rancido e stantio dei rossetti e delle matite da trucco da tre soldi che mia madre usava. Un odore così l'avrei ritrovato dopo molti anni frugando nei cassetti del buffet in sala, mescolati a vecchi foglietti, pezzetti di corde, matite senza punta, promemoria incomprensibili…
Artemisia alzava ogni tanto il suo sguardo dolce pieno di mestizia. Poi gli carezzava la guancia.
-Ma ricordi belli? Almeno un po'?
-Rari. Anche il carnevale diventava un momento infernale e diabolico.
Il cuoco, che era anche una persona dolce normale e che non aveva alcun rapporto di severità o di disciplina con noi, con una scala tendeva da un lato all'altro del cortile una fune molto in alto sollevata. Verso metà di essa ci appendeva dei ganci. Ai ganci venivano attaccate delle pignatte. Si, delle pentole di terracotta marrone, sopra le quali era stato steso e legato un foglio di carta per tenerlo chiuso. Era un'usanza paesana, forse già in disuso quando veniva offerta a noi.
Veniva sorteggiato un numero, visto che tra l'altro il numero sostituiva il nostro nome.
Al fortunato o sfortunato prescelto venivano bendati gli occhi. Poi, stupidamente, mostrandogli alcune dita della mano davanti alla benda dagli occhi gli veniva chiesto: quante sono?
Appurato in quel modo che non vedeva nulla, gli veniva messo in mano un grosso bastone. Col quale ritto ben in alto il tapino si muoveva cercando di trovare in alto la corda o addirittura la pignatta. Le voci di tutti i ragazzi lo seguavano e lo aiutavano: avanti! No non te li versò destra! Ma no, un po' più indietro! Ci vai bene così…!
Anche questi suggerimenti erano visti di malocchio dal regista del satanico carnevale.
Raggiunto il rumore sordo metallico della pignatta contro il bastone, si trattava di prendere lo slancio e assestare un colpo forte. Molte volte i colpi andavano vuoto. E infine…
Il contenuto della pignatta cascava giù, talvolta insieme a qualche frammento di terracotta tagliente, e le masse ingorde si buttavano a pesce su quello che era uscito. Ne nascevano dei mucchi di corpi che cercavano di frugare in mezzo alla terra per raccogliere una liquirizia, una caramella, qualche altro modesto cibo per la loro fama infinita.
Il rettore, impugnava in quelle occasioni un corto bastone di legno in fondo al quale erano legati svolazzanti diversi pezzetti di corda di cuoio. Il gatto a nove code. E dopo aver urlato inutilmente di sollevarci da terra, arrivavano delle scudisciate sulle schiene. O addirittura prendere per gli stracci qualcuno con sberle e calci.
Talvolta la pignatta conteneva però addirittura solo segatura!
-Ma è terribile…!
-Ma i momenti più belli davvero per me, erano quelli in cui, insieme ai pochi miei accoliti che avevo, organizzavo io dei giochi.
Erano sempre del genere: facevamo finta che… Facciamo che io ero, e che voi eravate…
Con la mia fantasia fervida riuscivo a vedere le cose che stavamo raccontando giocando insieme. C'era di tutto. Frammenti di film visti qualche volta al cinema dell'oratorio, mie letture, mie fantasie.
Gli altri mi lasciavano il ruolo di regista e sceneggiatore.
Muovendoci saltellando ritmicamente e battendo con una mano sulla nostra natica destra, andavamo a cavallo… Facendo con la voce il rumore degli zoccoli… Percorrevamo vallate, combattevamo contro i draghi e contro i nemici… Liberavamo principesse bellissime incatenate… Vincevamo battaglie sanguinose terribili…
Credo che anche i miei complici e compagni vedessero come forse fanno tutti bambini quello che stavamo sognando e giocando.
I muri scrostati dei cortili, scomparivano per magia. Gli assistenti disumani con le loro facce da animali stupidi si perdevano nella nebbia del racconto. Prati e colline alberi ruscelli e corsi d'acqua… Castelli… Torri merlate da scalare… Fanciulle con gli sguardi dolcissimi bagnati di lacrime che ci imploravano di andare a salvarle… Da liberare… Da amare naturalmente!
Artemisia ora gli si era fatta ancora più vicina. Con le braccia lo avvolgeva e le mani di lei sfioravano e frugavano l'ex bambino che raccontava… Accoglieva volentieri dalle sue mani la pipa per dare anche lei qualche tiro di fumo acre.
-Quel passato che ora fai rivivere è un incubo… Lo vedo anch'io, ora, lontano, quasi irreale… Mentre parli sento che anche per te è lontano, superato, lo racconti come se non fosse neppure tuo, se non ti avesse fatto così male.
-Qualche altro breve episodio, gioia, anche questo lontano, da apparire quasi buffo.
L'appetito e la fame erano reali, per la scarsa alimentazione, ed erano anche psicologici, manifestazioni di carenze affettive e mancanza di allegria.
Mi chiedevi ieri la nostra alimentazione. A pranzo quasi sempre un primo, di pasta condita alla bell'e meglio con salsa di pomodoro usata con molta parsimonia, troppa; oppure un risotto quasi insipido, ormai scotto, come la pasta. Ma al mio appetito vorace sembravano leccornie. Il secondo era molto limitato. Due o tre fettine di salame cotto con delle lenticchie; oppure del tonno in scatola con dell'insalata; e poi il mio piatto prediletto che ti farà rizzare i capelli. La chiamavamo la "scarliga". Non esiste nel dialetto novarese qualcosa di simile e quindi probabilmente veniva da qualche altro posto trapiantato li con il nome è la ricetta ormai senza più radici culinarie.
Una specie di frittura in umido scurissima di frammenti di polmone, fegato pochissimo, milza, cuore bovino o suino. Il tutto fatto cuocere all'infinito sull'immensa cucina economica a legna immerso con aglio e cipolla tritata in un vino oscuro che gli dava quel colorito buio.
A me piaceva moltissimo. Cibo povero. Ad alcuni compagni non piaceva e allora me ne facevo passare i loro piatti che ingurgitavo golosamente. Ma non ero il solo.
Ricordo due ragazzi molto più grandi di me con i corpi massicci che una volta si erano messi a raccogliere piatti e piatti e piatti di scarliga…. E avevano continuato a mangiare mentre noi ridevamo.
Nella ricreazione dopo il pasto dovevano aver avuto una terribile sete perché avevano continuato ad andare al rubinetto della fontanella che c'era in cortile e che noi chiamavamo il pompino, e avevano continuato a bere. "Overdose alimentare". Indigestione.
Avevano cominciato a star male ed erano stati portati da un assistente al pronto soccorso. Avevano poi raccontato di aver continuato per ore e ore a rigettare schizzi di bolo alimentare nerastro.
La fame si tagliava col coltello.
Il mattino ci destinava delle scodelle bianche di ceramica pesante con dentro una specie di latte fatto con il latte in polvere degli aiuti economici americani postbellici all'Italia. Leggermente colorato di qualche surrogato di cacao.
A me faceva schifo. Per fortuna che la zia dai paesi dove faceva la maestra poteva acquistare delle uova fresche. E ogni mattina avevo il privilegio di avere un nuovo. da un forellino in cima facevo uscire nella tazza di latte da buttar via il bianco vischioso. Poi aprivo la corona del guscio, lo appoggiavo a mò di portauovo su un tovagliolo appositamente predisposto; ci mettevo dei pizzichi di sale; e tingevo nel rosso saporito dei frammenti di pane.
I ragazzi dell’ indigestione erano poi gli stessi che avevo in classe con me, in quinta elementare. Bocciati dalla scuola becera di allora che non riusciva a seguire anche tutti gli orfanelli, dovendo occuparsi di 35 - 40 alunni, avevano entrambi tre o quattro anni più di me. I grembiuli neri andavano loro stretti. Ed erano pure stretti per loro i banchi di legno. E certamente era scomodo stretto e assurdo quello che veniva raccontato loro. Il maestro, che aveva il privilegio di avere gli orfanelli goffi e ingombranti, era compensato dal poter ospitare i figli delle famiglie bene della città. Quelle che poi ogni tanto a Natale e Pasqua e per fine anno potevano mandare ricchi regali. Che naturalmente loro dicevano di non mandare più ma che incassavano come l'obolo e come il pedaggio feudale di quella scuola di classe.
I due grossi animaloni buoni, ma irrequieti, a un certo punto cominciavano a disturbare tra loro e con i compagni vicini. E non bastavano i ceffoni che il maestro giovane e ritenuto molto moderno e aperto dava loro. per cui ricordo che una volta chiamò uno dei ragazzini garbati ed eleganti figli delle classi ricche e gli diede l'incarico di accompagnarli in un'altra classe. Lì ci faceva la maestra la moglie del rettore. Quella che da benemerita aveva la casa per ex galeotti tra i quali sceglieva i migliori per farci da assistente. Donnettina piccola, decisa, ed estremamente dura, notabile democristiana, era riuscita addirittura a vantarsi di avere collaborato con la lotta partigiana.
In quella classe, frequentava mio fratello grande. Che poi mi raccontò tutto.
Dopo una decina di minuti i due ragazzoni erano tornati nella nostra aula piangenti, con le facce rosse gonfie.
La rigida educatrice, alzandosi sulle punte dei piedi aveva dato a ciascuno di loro 50 ceffoni sulla guancia!
Certo. Allora questa era la realtà.
Come per tutti coloro che hanno vissuto in istituzioni totali, manicomi, carceri, corrigendati, ospizi, tutti i miei compagni e anch'io per anni, dopo essere usciti da quelle bolge infernali, ci eravamo sentiti in colpa noi per quello che avevamo subito!
Vedi dunque, gioia, che è proprio vero quello che tu stai dicendo. Ho finalmente elaborato quel passato. L’ho rimasticato. Me ne sono liberato. Ecco perché tu puoi notare il tono distaccato con il quale te ne parlo.
Entrambi potevano immaginare meglio come fosse la vita nei centri di Identificazione per extracomunitari. Potevano immaginare come è l'inferno che domina intere desolate parti del nostro feroce pianeta.
La pipa ormai si era spenta.
I fantasmi del passato si erano dileguati, dopo essere rimasti sospesi a mezz'aria a provare ad incutere ancora terrore.
Ed era finalmente arrivato un clima dolce, morbido, rasserenato. La tenerezza partecipata di lei aveva dissipato quelle tenebre oscure.
E decisero quel punto di andarsene di là, per dirsi e regalarsi parole e cose più dolci.
Nanni Omodeo Zorini Qfwfq

martedì 17 maggio 2016

L’AMORE DELLE TRE MELAGRANE -.10. ESSERI UMANI E LAGER

L’AMORE DELLE TRE MELAGRANE -.10. ESSERI UMANI E LAGER
(narrazione regalata per la lettura; rintracciabile sul blognanniomodeozorini.blogspot.com
, è possibile leggere, scaricare, NON COMMERCIALIZZARE, riprodurre Identica citando l'autore; " Creative Common")

Il fiume logorroico era diventato inarrestabile. Qualche pausa abbastanza lunga per volare nell'etere dei sensi. Per ubriacarsi d'amore. A stento tenendo a freno la voglia di dire e di parlare anche lì.
Oppure per fare uno spuntino che lui preparava nella cucina al lume di molte candele.
Poi tornavano sul divano rosso. Lei gli appoggiava le gambe oppure la testa sul petto e sul grembo. E con uno sguardo complice e molto gentile e garbato lo invitava a raccontare…
"Beh, sì, ma oltre agli episodi di brutalità dei nostri carcerieri aguzzini assistenti, ne ho in mente anche alcuni molto teneri. Ricchi di umanità. Che già allora mi facevano tremare il cuore.
Quell'attività di nostri guardiani era naturalmente poco ricercata è assolutamente sottopagata. Venivano i più disperati. Uno studente polacco di origine italiana profondamente alcolizzato sadico e con l'anima nazista. Un imbecille cacciato dal seminario dopo essere stato ripetutamente bocciato perché troppo ignorante. E poi, alla fine, la moglie del rettore notabile in via di beneficenza, aveva fatto venire degli ex carcerati, che sceglieva talvolta in modo abbastanza fortunato, tra gli ospiti di una casa di accoglienza dove venivano accolti.
Ne ricordo soprattutto due.
Era un uomo alto di bell'aspetto. Il volto era leggermente deformato e avevo un occhio molto fisso forse artificiale.
Ci aveva poi raccontato che proveniva da una famiglia molto benestante. Aveva avuto per sua colpa un incidente terribile in auto nel quale forse erano morti tutti. Lui si era salvato molto a fatica ed era stato rimesso in sesto un po' come un uomo bionico, dopo aver subito per anni interventi chirurgici che gli avevano deformato la struttura del corpo e soprattutto quella del volto.
Era molto simpatico. Sapeva ridere molto bene. E ci raccontava storie deliziose. Anche se forse non era un maestro ideale. Ma a noi piaceva.
Ci intratteneva quando stavamo nello studio per ore tra un'ora di ricreazione l'altra con la sua narrazione dall'accento milanese.
Era un suo modo di evitare problemi disciplinari. Anche se spesso, purtroppo, dopo che ci aveva fatto ridere e ci eravamo messi a fare schiamazzi di giubilo e di esultanza, piombava dentro il nostro rettore con lo sguardo allucinato e feroce. E cominciava ad insultarlo ferocemente. A quel punto lui era costretto a far finta di avere già individuato e segnato su un fogliettino che teneva in mano, sul quale però non c'era scritto nulla, i nomi dei ragazzi colpevoli di aver fatto chiasso e di aver provocato disordine.
E improvvisava l'elenco: 17; 14; 6… Infatti come di regola in una istituzione totale, venivamo chiamati e individuati per il numero che ci era stato appioppato all'inizio della nostra sciagurata entrata in quel luogo. In quella bolgia infernale.
I malcapitati venivano messi in castigo per molto tempo. Talvolta anche prese sberle. Ma quando lo faceva lui, faceva molto rumore con la voce, ma di fatto stava molto attento a non fare più male del dovuto.
Appena viene rettore, si scusava con noi tutti e soprattutto con le vittime sorteggiate a caso: ho dovuto fare così, ragazzi, scusatemi, mi dispiace…
Noi eravamo abbastanza solidali con lui anche se ancora ci bruciava un po' la pelle per le sberle che c'eravamo presi indebitamente. Eravamo suoi complici e lui era nostro complice. Entrambi odiavamo la guardavamo con rancore il cerbero regista del nostro girone diabolico.
E poi, ci piacevano molto le storie che il nostro bizzarro e folle assistente ci raccontava.
Come tutti i suoi squallidi colleghi, riceveva una paga da fame. Compensata da vitto e alloggio.lui aveva l'incarico di sostituire ogni giorno della settimana gli altri suoi colleghi. Quindi non dormiva dietro la tenda come facevano gli altri in ciascuna delle nostre camerate. Sostituiva talvolta anche la portinaia, una donnina alta 1 m e 10, buona ma un po' rimbambita; e anche l'ometto delle pulizie, un ex convittore, leggermente claudicante, che chiamavamo tra noi "Crapin” (testa piccola, per via del capo molto minuto e dell'aria un po' tonta che aveva).
Talvolta riusciva a sostituire anche il cuoco… Anche se i risultati erano abbastanza terrificanti.
Arrivato a fine mese, appena li consegnavano a mano contandoli uno sull'altro i biglietti del suo magro salario, spesso si faceva prendere da un raptus consumistico. Io ero uno dei suoi prediletti per questa funzione: gli sembrava che avesse un aspetto adeguato e gli ero simpatico; aveva sfilato un elenco con le piccole gioie che voleva subito comperare. E benché fosse assolutamente vietato dal rettore che noi potessimo essere senza sua preventiva approvazione e autorizzazione fatti uscire dall'Istituto, mi chiamava vicino a lui, non osando il numero ma il mio nome, Nanni, mi consegnava la sua lettera per babbo Natale dello stipendio, e mi autorizzava seduta stante a raggiungere a poche centinaia di metri da lì una tabaccheria dove c'erano le sue delizie. In genere l'elenco comprendeva 10 pacchetti di sigarette alfa, le più scadenti ma anche la più economiche; un flacone di profumo colonia molto dozzinale da poveri; qualche saponetta a buon mercato.
E al mio sguardo preoccupato di essere rimproverato dal rettore, lui ribatteva ribellandosi al terrore che ovviamente non viveva e nel quale non gliene fregava niente "se ti chiede qualcosa digli che ti ho autorizzato io!"
Per miracolo le mie imprese commerciali erano andate sempre tutte quante lisce.
Al ritorno dalla missione avevo l'incarico di portare la preda acquistata direttamente a "casa sua". Evidente eufemismo: gli avevano dato un alloggetto meschino umido scrostato al quale si accedeva soltanto dall'esterno dell'istituto. E nel quale…
Mi apriva sempre immancabilmente una vecchina, dolcissima che parlava con un fortissimo accento romanesco. Mi faceva una carezza, mi chiamava per nome, e mi diceva che il suo figliolo amatissimo mi stimava molto mi voleva molto bene. Perché anche lui si sentiva come me pur in quella condizione un vero signore è un vero aristocratico.
Era la sua mamma. E quelle uscite avevano il fascino del proibito tollerato, e la visione di questa anziana dolcissima ex signora benestante romana, della sua gentilezza e della sua dolcezza nella voce nei gesti e negli occhi.
Al ritorno nello studio, dopo essermi guardato in giro se potevo parlare liberamente, per quanto sottovoce, riferivo balbettando piano: tutto a posto; missione compiuta; la sua mamma era molto contenta!
Un altro personaggio profondamente umano che per un errore dei carcerieri c'era stato assegnato per un tempo purtroppo rimasto molto breve, era quello di un ometto di mezza età. L'abito non fa il monaco: aveva pochi capelli pur non essendo molto anziano; ed era di quei tipi che hanno la barba talmente fitta e talmente nera, che anche se si radeva ogni giorno scrupolosamente, gli restava un alone grigio nero sulle guance fin sotto le basette. Ricordava certe caricature dei delinquenti o dei galeotti. O quelle di qualcuno dei membri della banda bassotti disneyana.
Ricordo che una volta, non essendo io andato a scuola perché avevo avuto l'influenza, mi trovavo con pochissimi altri nella sala studio dove in genere venivamo a lungo parcheggiati inutilmente. Quand'era l'ora del pranzo per il personale come lui, cioè intorno alle 11.30, perché poi alle 12 avremmo pranzato nove, dava l'incarico a qualcuno di noi ragazzi di andare in cucina a prendere un vassoio sul quale erano appoggiati un piatto fondo con il primo è un piatto piano con il secondo, entrambi coperti da un altro piatto a mò di scaldavivande. Una mezza bottiglietta di vino era coperta da un bicchiere rovesciato.
Mentre stava per accingersi a mangiare, di sottecchi aveva lanciato uno sguardo su noi tapinelli.
Con una forchetta, perché probabilmente anche per loro erano vietate le posate da taglio come coltelli, aveva dimezzato il filo uncino di pane, l'aveva tagliato a metà e ne aveva fatto un sandwich rudimentale. Dentro ci aveva infilato un po' di pasta scotta, qualche frammento di tonno in scatola, qualche foglia di insalata…
Poi, fatto il calcolo se ce n'era abbastanza per i tapinelli che stavano lì a guardarlo facendo finta di niente e mostrando di non essersi quasi accorti che lui stava mangiando, chiamava uno alla volta noi e senza dire una parola ci metteva in mano il frammento del suo pasto. Una volta addirittura mi aveva chiesto a me o qualcun altro se volevamo assaggiare un goccino di vino.
La moltiplicazione dei pani e dei pesci e la divisione del suo mantello gastronomico molto modesto erano un miracolo semplice umile che avveniva nel più assoluto silenzio.
Ricordo di esserne rimasto profondamente turbato e commosso. Molto probabilmente dopo l'episodio che ho appena raccontato l'ex scarcerato dalla faccia da brigante e dall'anima di angelo, era stato licenziato in tronco perché non abbastanza feroce cinico sadico e persecutorio.
Potrei forse accennare anche ad un altro personaggio ma mi sembrava un po' stupidotto. Non essendo feroce cattivo sadico o autoritario abbastanza, anzi per niente, aveva creduto di riuscire a mantenere la disciplina facendoci fare dei cori. Ricordo che con la sua faccia un po' becera che forse adesso potrei dire assomigliare a quella di Mr. Bean, che aveva fatto cantare "sur le pont d’Avignon”, “alouette”… E altre cose del genere.
La disciplina andava comunque a farsi fottere, invece di fare schiamazzi, noi ragazzi cantavamo in modo sguaiato e facevamo divertendoci molto casino.
E poiché lo studio e l'ufficio del rettore era proprio sotto il locale definito studio dove stavamo stipati per ore, probabilmente era salito il nostro minosse con lo sguardo infuocato che aveva assestato sberle e calci a destra e a manca. E infine credo dopo qualche giorno avesse licenziato l'ingenuo fessacchiotto alter-Mr.Bean…."
Durante tutta la narrazione Artemisia era rimasta tra le mie braccia regalandomi il tepore del suo corpo, con gli occhi della mente che pendevano dalle mie labbra. Intenerita, solo un pochino intristita da quella mia infanzia sgradevole e brutta. e subito aggiungeva:
"amore, dentro di te ci sono ancora pezzettini di quel bambino la’... Sono innamorata di te e sono innamorata anche di quel bambino … Coccolo la sua immagine, la sua animuccia ferita, carezzo la sua testa e i suoi capelli rapati a zero, mi piace che tu butti fuori quelle immagini lontane e dolorose, e che me le regali, da tenere tra le mie braccia e nel mio cuore.…"
(come potrei, Artemisia, non capire come vivono migliaia e migliaia di persone adultI, donne e bambini nei lager dove vengono reclusi da chi cerca di impedire loro di fuggire da paesi devastati? spesso devastati da bombe vendute la' dai paesi che ora allestiscono il lager. E ci stanno anni, nei centri di raccolta e detenzione per scontare la pena di essere dei disperati!)
Nanni Omodeo Zorini Qfwfq

L'AMORE DELLE TRE MELAGRANE- 8 - La seconda melagrana

L’AMORE DELLE TRE MELAGRANE -8- La secondamelagrana
E il vecchierello:
— Figlio mio, chi è bianca non è rossa e chi è rossa non è bianca. Però, tieni queste tre melagrane. Aprile e vedi cosa ne vien fuori.
Ma fallo solo vicino alla fontana. Il giovane aperse allora
….  la seconda melagrana e saltò fuori un'altra bella ragazza dicendo:
(da Italo Calvino, Fiabe italiane; L’amore delle tre melagranae.)

…"Ma… e le altre due melagrane…?"
Se ne stava accucciata tra le sue gambe inginocchiata sul kilim. No, amore, non ho freddo, stai tranquillo, gli aveva detto quando lui aveva provato a coprirla almeno sulle spalle con il Pyle rosso morbido leggero se ho freddo te lo dico io, va bene? E lo guardava adorante di sotto in su. L'aveva stuzzicato, così, per gusto. Come facevano altre volte. Lo sapeva di sicuro reattivo anche in quello. Se ne sarebbe stato lì sornione un pochino, poi avrebbe tirato fuori tutto, frenetico. Lei sapeva molto bene aspettare.
È  una vita che aspetto…è una vita che aspetto te… è una vita che aspetto questo sogno che abbiamo sognato… che stiamo sognando. E che è vero concreto reale…
Lui, sempre così irruento in tutto così difficile da tenere a freno, certe volte si divertiva a farsi pregare. A farsi aspettare. Intanto che lei, come sempre, gli mandava carezze di sguardi intensi cielo-azzurro, lui le aveva sciolto i capelli, ghermendole in modo rude e dolce insieme la nuca.divertendosi a frugare con le dita tra i capelli.
Dopo qualche boccata di fumo acre della pipa, lasciava che le sue piccole mani si allungassero, gliela togliessero dolcemente, per aspirare golosamente; e riconsegnandolo obbediente alle mani lunghe e affusolate di lui.
Sapevano entrambi che le paratie della cascata stavano per essere levate.
Che il tappo del cono vulcanico tremolava, mosso dalle fumate.
La lava incandescente ribolliva brontolando. Pronto ad eruttare.
"Si… Le altre melagrane…"
Poi, con voce vibrante, calma pacata all'inizio, e prendendo sempre più la foga della narrazione, si era messa a sgorgare.
«Il reuccio, allungò la mano nella bisaccia, e ne cavò fuori un'altra melagrana…
E l’aperse.»
Facevamo che, allora, ritorniamo un passettino indietro, a quanto scrivevamo l'altra sera, nella chat. Con la bacchetta magica, possiamo anche cambiare la storia, reinventarla, ricrearla da capo, riscriverla…
Il campanello, aveva fatto un rapido trillo.
Un delicato vibrante e sensuale tuffo al cuore.
Dietro la porta c'era lei.
Indossava una gonna leggera e mossa di lino indiano. Stampata. Colori come farfalle svolazzavano su quella garza sottile, leggera.
Una leggera blusetta dai colori bene abbinati, senza collo, che i capelli biondi corti riuscivano appena sfiorare.
A tracolla, di lato, una borsa a sacca di cuoio grezzo.
Intorno al collo ondeggiava lunga, flessuosa, sensuale una sciarpa leggera bianca e rosa.
Zoccoli di legno alto, anch'essi di cuoio.
Ma prima della sua immagine, alla porta socchiusa si era affacciato il suo sorriso intenso.
Tutto era rimasto sospeso in stand-by, a mezz'aria, per un tempo indeterminato… Variabile tra pochi secondi e l'eternità.
Lui aveva allungato la mano sinistra, invitante. La mano destra di lei ci si era appoggiata con garbo, ed era entrata.
Poi il tempo aveva ripreso a scorrere. Un tempo nuovo. Leggiadro. Sognante. Senza voci fuori campo. Solo il morbido sensuale pulsare del tu tum tu tum tu tum dei cuori. Martellante nella gabbia toracica di lui, molto più in alto, più violento.
Delicato, timido, quasi impacciato, titubante, ma non meno intenso, quello di lei. Sotto i piccoli minuti e sodi seni di ragazza.
"Ciao"
"ciao!"
Due diverse intonazioni vocali. Si incontrarono a mezz'aria. Si salutarono. Si scambiarono un sorriso, i loro saluti.
Nella clessidra la sabbia lenta minuta e impalpabile aveva ripreso a scorrere venendo giù morbida.
Sullo schermo del vecchio orologio nero di latta, appeso alla parete, sul suo bianco un po' scrostato, con le cifre disegnate da una mano incerta e tremolante, nere quelle del cerchio esterno, rosse le più minute quelle del cerchio interno vicino alle sferette. E queste due piccole frecce nere arrugginite. Anche lì sopra il tempo piano piano riprendeva terreno.
(La voce di lei fuori campo, suggeriva: ah, forse abbiamo dimenticato, potevo portare allora forse una collanina di pasta di conchiglia color turchese rosa… Ce la mettiamo?)
I gesti non erano forse raccontabili. Tutto avveniva come se la moviola girasse la scena nell'acqua… Lenta… I gesti avvenivano da soli. Tutto era previsto da una regia impalpabile, sapiente, avvenivano e basta. Restava solo da viverli immersi dentro. C'erano già. E basta.
Poteva essere avvenuto che le offrisse un te al gelsomino. Che bacchette e coni di incenso diffondessero nell'aria il loro profumo. Le persiane che davano sul balcone potevano essere chiuse o accostate. Creando una mezz'ombra. Ovattata.
Lui indossava dei calzoni molli, tenuti in vita da un cordoncino di tela. Una camicia rossa damascata, senza colletto, lasciata cadere fuori dei calzoni. Camminava con i piedi scalzi sulla moquette.
Lei sfilò i propri zoccoli. E mosse qualche passo con i suoi piedi minuti, che mi seguivano titubanti quelle di lui.
Buttò a terra la borsa di cuoio grezzo. Aveva intorno al collo la sua sciarpa svolazzante che le arrivava ai ginocchi davanti e dietro scendeva oltre le morbide colline dei suoi glutei.
Il tempo era sospeso in apnea. E comunque continuava a scorrere. Era forse un mattino, un pomeriggio di luglio. L'aria si era rinfrescata durante la notte. Le zanzare micidiali non avevano osato entrare per via dei fornelletti dissuasori, che rimanevano accesi.
L'intimità, guardinga e discreta, si limitava agli sguardi, ai gesti, attenta a non fare mosse sbagliate. Pudica.
Non era avvenuto proprio niente in quel tempo sospeso. E intanto era avvenuto tutto. Un miracolo andava compiendosi.
Lui aveva evitato di cingerle con un braccio le spalle, di carezzarle con mani ampie calde, forti la guancia. Di attirare a sé quel volto delizioso, quello sguardo di acqua marina. Fosforeggianti. Per baciarlo. Quel bacio restava una promessa sospesa, cauta, intuite pensata. Mentre muovevano insieme con le tazze di tè caldo e profumato, lui le aveva fatto vedere l'alloggetto.
Appena dentro, sulla sinistra una porta finestra sul ballatoio, persiane semiaccostate, i vetri lasciavano penetrare solo un filo d'aria.
Un tavolo formato da assi di abete assemblate tra loro che poggiavano su due cavalletti alla buona. Disteso sopra un ampio telo scuro, con fiori stilizzati gialli viola rossi blu.
Nell'angolo contro la parete una brandina ricoperta d'un telo viola sfiorato afgano, era ricoperta da grandi cuscinoni che lo facevano diventare un divano.
Di fronte al divano turca una stufa a gas. Spenta.
Poi appena più in là piccolo locale cucina. Fornelli, forno, quel che pensi le grezzo di bambù di giunco. Agganciato alla parete Danelli ricorda.
Appena più a destra un minuscolo vano toilette e doccia.
Dietro la cucina una minuta sala da pranzo in cirmolo. Cassapanca a elle. Al di qua del tavolo sui tre lati liberi sedie impagliate.
Sulla sinistra una credenza abbinata. Con le cerniere di ferro battuto, inchiavardata di borchie, vetri smerigliati disegnavano cerchi accostati.
Alla sinistra di questo locale la camera da letto.
Una branda grande, le lenzuola buttati in un angolo, un cuscino era rotolato a terra.
Sul lato opposto, vicino a un'altra porta finestra oscurata, un vecchio tavolo da cucina. Tarlato. Con cassetto lungo piena di tovaglie ricamate o sfiorate. Una piccola lampada spenta. Alcuni libri disordinati. Un quaderno cinese nero aperto con sopra una stilografica. La pagina sinistra era già tutta vergata di scrittura. Quella destra fino a metà. Qualche frase qualche pensiero erano rimasti in sospeso. Aspettavano il loro turno.
Nel tempo rimasto sospeso che continuava comunque a fluire non era venuto sostanzialmente niente. E quindi era avvenuto tutto. Era avvenuto se stesso. C'era.
Mentre curiosava i locali dell'aveva seguito a piccoli passi. Ogni tanto la sua gonna aveva sfiorato i suoi calzoni bianchi molli. Il suo gomito aveva sfiorato il suo.
I fiati, gli sguardi sfumati che si carezzavano garbatamente di sfuggita.
La voce di lei, di ragazza, sfumava le "s", trascinandole un po', vezzosamente tra i denti. Non aveva ancora fatto che non l'avrebbe fatto. Ma col pensiero la stava baciando delicatamente sulle labbra. E lei protendeva garbatamente col pensiero il suo volto, gli occhi fosforeggianti, le labbra umide, adolescenti.
E non se l'erano neppure detto. Che lei non avrebbe raccontato nulla in famiglia. Forse neppure gli amici che li avevano visti in piazzetta con i coni gelati, inforcare le biciclette. Bianca quella di lei. Nera, un po' graffiata qua e là, con le parti metalliche un po' arrugginite.
Era stato l'incipit. L'inaugurazione. La premessa. L'antipasto.
Al momento giusto sarebbe tornata. Avrebbe lasciato sollevare la gonna morbida e delicata. Si sarebbe lasciata accarezzare. Avrebbe sfilato la camicetta colorata. Avrebbe regalato il bianco lunare del suo corpo al suo sguardo lubrico di lupo buono.
Avrebbe donato da assaggiare il latte di mandorla del suo corpo pulito e terso. Alla sua bocca golosa.
Avrebbe aperto la conchiglia preziosa che teneva in grembo. Avrebbe donato un po' alla volta tutta la sua anima, il suo corpo, scoprendo e inventando una sensualità di donna che neppure ancora conosceva. Se non nei pensieri nascosti. Nelle fantasie. Nel desiderio.
Il tempo, finalmente aveva ripreso a pulsare tranquillo. I giorni a essere sfogliati nel calendario.
Sarebbero avvenute vicende prevedibili. Desiderate. In modo calmo.La certezza avrebbe preso il posto risolutamente delle prime titubanze.
Si sarebbero messi a nuotare nelle parole, nei pensieri, nelle emozioni, nella carne.
Vacanze all'Alpe Veglia. Tentativi di approcci amorosi sui letti a castello nel cameroni dei rifugi. Bevute di vino aspro e sicuro davanti al fuoco del camino. O intorno alla brace di qualche falò notturno. Lui avrebbe pizzicato la chitarra. Cantando i canti di lotta, del lavoro, del riscatto. Stornelli toscani.
Con la dyane verde pisello, una piccola tenda minuta, o la sua microscopica roulotte che riusciva a spostare con una sola mano, avrebbero imparato il campeggio al mare, in Provenza, in Normandia, in Bretagna…
Una nuova casa avrebbe sostituito quella bohemiènne.
Una casa vera.
I piccoli seni adolescenti si sarebbero inturgiditi. Piccole bocche urlanti vi si sarebbero accostate, golose e affamate.
E poi… E poi… E poi…
Chi lo sa mai…
Chi lo potrebbe dire…”

Lei lo ascoltava assorta con lo sguardo attento. Ogni tanto socchiudeva gli occhi e cercava la sua mano.
Qualche nuova boccata avida. Il fumo ora aveva assunto un profumo più delicato intenso insinuante gradevole, con un leggero sfondo che ricordava l'incenso.
Lei restituì la pipa alle sue mani, poi, dopo qualche momento di riflessione, con un leggero sorriso sulle labbra gli aveva chiesto: ma secondo te sarebbe potuto succedere tutto questo? Noi lo stiamo sognando, desiderando, fantasticando. Ho sempre pensato che tu sia stato e sia ora quello destinato a me, l'uomo della mia vita, quello che ho sempre cercato. Ma…
Ed era rimasta zitta. In stand-by …
Vedi, disse lui, la macchina del tempo non sempre funziona… Ora noi siamo tornati all'indietro a frugare nel passato, a provare a modificarlo. E l'abbiamo anche fatto. Ma, nella fiaba veniva raccomandato di aprire la melagrana solo vicino all'acqua… E se l'acqua non fosse stata pronta mentre apriavamo il frutto? La ragazza che fine avrebbe fatto dopo essere uscita dalla melagrana?
Avrebbe forse dovuto dire anche lei: "-"Giovanottino dalle labbra d'oro,dammi da bere, se no mi moro !"…. E poi? Sarebbe riuscito il giovanottino dalle labbra d'oro a portare l'acqua nelle sue mani alle labbra della ragazza uscita nuda dal frutto pieno di chicchi succosi e rossi come il sangue?
E se sì, come sarebbe diventata la realtà cominciata in quel momento come l'abbiamo descritto insieme fantasticando e sognando?
Assomiglierebbe alla tua situazione di oggi? Dopo tutti questi anni Artemisia cercherebbe ora e qui ancora nuove soluzioni affettive esistenziali e amorose?
Allora a quel tempo, non sempre c'era il telefono per comunicare e non tutti ancora l'avevano. Il protagonista del racconto l'aveva ad esempio appena messo in quella casina.
Ma tanti anni dopo, facevamo finta di farli arrivare fino al tempo presente, come sarebbe stata la situazione loro?
Avrebbe frugato nel Web, nei social network, nelle chat per cercare qualche soluzione che le permettesse di ritornare a ridere, magari,  dopo aver perduto quel riso che aveva conosciuto in quel lontano momento magico?
E chi avrebbe incontrato, visto che lui nel frattempo, compagno della sua vita e coniuge, non era più un uomo libero, uno scapolo di ritorno, un dongiovanni impenitente, essendole stato tutta la vita a fare il marito padre accanto a lei?
Si sarebbe incrinata la magia che sembrava assoluta, infinita, eterna in quel momento lontano? Sarebbe diventato anche lui per lei un imbarazzo, un peso, un fardello ingombrante noioso e fastidioso? Dal quale desiderar evasione e fuga ? Cercando nuovi amori straordinari?
Lei aveva tenuto lo sguardo basso mentre lui parlava.
Quindi aveva aggiunto: sì, forse vero, è stato bello sognare, fantasticare, provare a inventare un passato diverso. Con una sottile vena di nostalgia e di rimpianto per ciò che non era avvenuto per davvero.
Ma forse e meglio il presente… Visto che la macchina del tempo che tu hai usato ci permette solo di inventare una realtà mentale.
E allora ti dico: è sempre bello giocare con le parole e con i sogni con te. Ma preferisco sicuramente la realtà… Questa nostra realtà che ci siamo costruiti, che abbiamo creato noi. Questo nostro amore che è anche il nostro figlio, la nostra creatura, il nostro gioiello la nostra opera d'arte.
La pipa ormai stava spenta nel portacenere, con il camino rivolto in giù. Insieme lentamente si alzarono, lui le cinse con la mano il collo, e decisero e si dissero in silenzio con uno sguardo che avevano senz'altro delle cose importanti da dirsi, di là…
E si affrettarono subito.






l'amore delle tre melagrane-9

L’AMORE DELLE TRE MELAGRANE  .9- Primi giorni di scuola da maestro
Lei era arrivata già dal mattino.
Si era riposata sul divano di pelle rossa. Ora si era scostata di dosso il plaid e aveva cominciato da un po' guardarlo intensamente, con uno sguardo che ricordava i mattini di primavera.
Gli aveva afferrato la mano.
Lui la tratteneva lì, tra le sue. E cominciò a parlare.
"Te l'avevo appena accennato nella chat di ieri sera, dolcezza mia, ricordi? E mentre tu stavi riposando poco fa ho continuato a rimuginare e mi sono tornati in mente ricordi vividi.
Per diversi anni avevo, come molti altri studenti universitari, fatto da tappabuchi come insegnante nella nuova scuola media appena istituita. Dove infatti mancavano quasi totalmente nel Nord Italia laureati. Ma nel concorso magistrale ero riuscito abbastanza bene. E durante l'estate mi era arrivata la nomina. Sarebbe dovuto essere una pluriclasse in un paesino sulle alture del Cusio
Ma quella sede era stata soppressa. E mi ero trovato in una scuoletta di cinque classi  distinte proprio in riva al lago. Naturalmente più comodo da raggiungere con la piccola cinquecento blu.
Nelle esperienze degli ultimi mesi dell'anno scolastico precedente, dopo essere stato scalzato nella scuola ossolana da una laureata fresca fresca dal sud,ero stato supplente temporaneo in varie classi elementari vivacissime, nelle quali si scatenavano ragazzi e ragazze. Con il nuovo sopravvenuto, approfittando della mancanza del polso rigido caporalesco talvolta manesco degli insegnanti titolari.
"Dovrò starci molto attento… I primi giorni sono quelli che danno l'imprinting. Mi mostrerò fermo e molto deciso."
Avevo imparato e messo brillantemente in atto la tecnica delle frasi lasciate a metà, per restare in silenzio; ordine e silenzio, per predisporre, per creare un'atmosfera di attesa, lo sguardo che faticosamente riuscivo a tenere impassibile e freddo. Era indispensabile un clima che permettesse la comunicazione e di conseguenza l'azione educativa.
Dopo pochi giorni il clima umano era meraviglioso. Avevo fatto esperienze splendide … Però … C'era un però.
Uno dei ragazzi aveva sempre l'aria accigliata. Era scontroso. Con i compagni e anche con me. Non riuscivo mai a convincerlo a dedicarsi alle stesse attività degli altri. Teneva bronci lunghissimi. A guardarlo bene mi pareva addirittura brutto! Stava recitando la parte del "ragazzo cattivo".
Il pretesto era stato uno qualsiasi: forse era venuto alle mani con altri compagni e allora l'avevo pregato di smettere. Fin quando alla fine l'avevo gentilmente preso per un braccio, cercando di accompagnarlo la sua sedia.
Con sguardo feroce e cattivissimo mi aveva afferrato la mano che lo teneva e me l'aveva morsicata!
Ero riuscito assolutamente a controllarmi. Gli avevo fatto vedere il segno rosso dei denti sul dorso della mia mano. Dicendogli che m'aveva fatto molto male. E che io ero stato gentile con lui. Si era quindi calmato. Con calma avevo riflettuto su quel ragazzo. L'anno precedente era stato bocciato. Si trovava ora con compagni nuovi. Estraneo. Veniva da una piccola frazione interna e a casa si occupava degli animali domestici, capre, mucche, galline. Aveva indosso un fortuna di stalla.
Mi era venuta un'idea. Di punto in bianco poco tempo dopo avevo fatto finta di voler fare una lezione tradizionale. Nella quale avrei raccontato il funzionamento del corpo di un mammifero. Avevo cominciato dalla mucca.
Lui era rimasto muto, con gli occhi bassi, guardandosi le mani e le unghie. Infine la mia provocazione aveva dato un esito. Mi aveva interrotto mentre parlavo.
"Per parlare delle mucche, bisognerebbe averle già viste, bisognerebbe conoscerle… Mica dire delle cose che si leggono solo sui libri…!"
Una breve pausa di suspense e di silenzio.
"Sì? Immagino che tu allora conosca bene l'argomento…"
"Eh già che lo conosco… Mica sono uno che viene dalla città e le cose le conosce solo sui libri…"
E si era messo a parlare con competenza, all'inizio con tono aggressivo, e sempre più con aria convincente…
Avevo deciso di chiedere il consenso al resto della classe, e di nominarlo "aiuto-maestro di scienze". La metamorfosi era stata stupenda.
I tratti del volto gli si erano sempre più addolciti. Spesso di sua iniziativa veniva da me a formulare delle proposte di nuove lezioni che si era preparato per conto suo. Sulle prime avevo giocato a tenere duro; dando a vedere che avevo delle perplessità; volevo fargli conquistare un po' alla volta il suo nuovo ruolo; che non ero d'accordo perfettamente con lui; ma naturalmente sapevo che stavo andando alla grande. Sempre di più il mio aiuto maestro era diventato dolcissimo, molto socievole, simpaticissimo… A guardarlo bene dopo poco tempo mi ero accorto che era un bambino bellissimo… Come tutti gli altri d'altronde!
Ti racconto questo, dolce Artemisia, perché proprio l'altro giorno mi hai chiesto amicizia su FB una mia ex salone di allora! Mi venuto un coccolone! Un batticuore!
-" Buongiorno, mi chiamo xxxwwwyyy e spero di non sbagliarmi nel credere che lei sia stato mio maestro in quarta elementare a Wxxxxx , prima penso fosse stato in Val Cannobina. Se è lei sappia che la ricordo con piacere anche a distanza di oltre 40 Anni. Anche se solo per un anno lei mi ha insegnato molto più di quello che prevedeva il programma ed il primo giornalino scolastico è stato una vera conquista. Grazie per quello che mi ha lasciato nella testa e nel cuore; non so cosa avrei dato perché i miei figli avessero potuto averla
- Benvenuta xxxwwwyyy. Oltre che essere amica di wzxwxw sei per caso anche tu una mia ex alunna di 1000 anni fa a xxxxx? (Aggiungendo subito dopo)
- Scusami …..Non avevo ancora letto il tuo messaggio e scopro che il mio intuito "pluricentenario"aveva funzionato bene! Una volta comunque al maestro ci si poteva permettere di dare del tu ti sarei grata se lo facessi ancora! Ti ringrazio per le splendide parole che hai usato. Essendomi dedicato per un'intera vita professionale all'educazione confermo un concetto di base "nessuno insegna davvero a nessuno"! al massimo, però, se riesce , può fornire strumenti, metodi e materiali per imparare ...ciascuno impara da solo! Se ne avrai il tempo e la voglia ti ringrazierò molto quando riuscirai a farmi avere informazioni sugli altri ragazzi e ragazze. Ho spesso parlato a persone amate raccontando la meravigliosa esperienza che mi avete permesso di fare allora… un abbraccio e auguri per la tua vita, sposo, figli e tutto quanto...
( scusa i refusi linguistici...ma per pigrizia detto allo Tablet e il software purtroppo non è molto intelligente, e commette errori)
-Sono molto felice, ora mi trovo ….in Estonia per qualche giorno di vacanza, quando torno forniro' maggiori notizie, cari saluti….
Ti confesso gioia mia che l'emozione era davvero molto forte.
Appena te l'ho scritto in chat….
" Una mia ex alunna di 40 anni fa di Xxxxxxmi ha chiesto amicizia in F di Be mi ha fatto battere il cuore
Ho appena risposto anche a una richiesta di amicizia di un compagno della Cgil di Torino che ha letto il mio profilo e ci siamo scambiati delle idee sulla nostra nostalgia di militanti politico-sindacali.
Artemisia: solo io voglio farti battere il cuore
Nanni: Ripensando al mio primo anno da maestro elementare mi batteva il cuore perché è stata una delle mie esperienze di insegnamento che ricordo con maggiore nostalgia
Artemisia: che bello
Nanni : Quando avremo più tempo ti racconterò di quella esperienza usando il minor numero di parole…
Dal punto di vista affettivo ed emotivo solo tu mi fai battere il cuore è un pochino la mia citrullina figlia
Era stato un anno molto intenso. Avevo imparato moltissimo. Mi ero messo in contatto con un vecchio compagno di scuola che già frequentava il movimento di cooperazione educativa e mi aveva consigliato letture di Mario Lodi. Da lì sarebbero nate poi tante altre iniziative.
Ma ti voglio raccontare un episodio abbastanza buffo e divertente, che mi è tornato alla luce proprio in quel momento ricordando quell'anno da maestro elementare.
Una mia collega era una gran bella donna, ma riteneva di avere un naso poco gradevole, arcuato ed aquilino. Ero molto giovane aveva al massimo qualche anno più di me. Chiacchieravamo a lungo andando a mangiare al ristorante insieme nella pausa pranzo che avevamo tra le 12 e le 14. Mi aveva confidato che avrebbe con molto sacrificio economico e di sofferenza fisica, affrontato un intervento chirurgico di plastica per rimediare a quello che lei riteneva un errore della natura.
Era stata assente qualche settimana.
Appena ripresa la scuola era venuta subito a farsi vedere da me con un sorriso complice. Non osai dirle che il suo naso precedente era molto molto più bello, per quanto molto vistoso secondo lei.. Questo era una cosa microscopica, molliccia, insignificante… Ma se lei era contenta!
Nell'intervallo di metà mattina i nostri alunni in modo vivace ma sostanzialmente tranquillo, si dedicavano a varie attività di gioco libero di auto organizzato nell'immenso salone a vetrate.
Un altro alunno che avevo allora, aveva i capelli rossicci e il volto pieno di efelidi. Lo sguardo era molto birbone e lo adoravo. Aveva un senso dell'umorismo spiccato trasgressivo e divergente.
Ricordo che invece di intrattenersi con i compagni, nell'intervallo, era spesso avvezzo a correre e saltare per l’immenso salone. Anche quella mattina lo notavo con la coda dell'occhio mentre spiccava immensi salti in alto, e poi riprendeva la sua corsa.
Nei suoi balzi verso l'alto si era gradualmente avvicinato al suo maestro che stava conversando con la collega convalescente.
Ricordo molto vivamente il suo sguardo vivace, pieno di stupore spontaneo, mentre ancora stava sollevato per aria, e aveva esclamato:
"Toh…! Un altar nas” Emoticon smile ma guarda! Un altro naso nuovo!)
La collega era rimasta annichilita, stupita, e l'avevo subito rincuorata. Che stesse tranquilla. Che quella era la manifestazione molto naturale che forse molti avevano avuto senza manifestarla.
Dentro di me, avrei abbracciato quel ragazzo per la geniale splendida meravigliosa battuta con la quale se n'era uscito!
Era stato forse già allora che avevamo io i ragazzi sperimentato forme di socializzazione atipiche.
All'intervallo molti di loro portavano delle merende da casa. Pane, marmellata e burro, pane e salame, un frutto, un pezzo di focaccia. Qualcuno era senza merenda. Insieme mentre mangiucchiavano i propri beni alimentari, di loro iniziativa avevano cominciato a far assaggiare un pochino del loro cibo ai compagni, che non avevo nulla, e poi a provare ad assaggiare e a scambiare cibi.
Avevamo insieme concordato che volendolo avrebbero potuto mettere a disposizione quel che avevano, socializzando il tutto. Una forma di pratica dell'obiettivo, mediante una spontanea messa in comune della proprietà.
Diversi anni dopo mi era capitato di ripassare da quei posti. Qualcuno di loro me l'aveva chiesto intenzionalmente. Ci eravamo trovati con bel numero di loro nella frazione dell'entroterra che sarebbe dovuta essere la mia sede effettiva. Avevano fatto il tam-tam, suonando ai campanelli e telefonandosi.
Ero molto emozionato. Aveva cominciato subito a porre una domanda il ragazzo coi capelli rossi quello che saltava e spiccava il balzo in alto guardando i nasi.
-Ci sono certe cose, maestro, che nessuno ci dice mai. Se non ti dispiace le chiederemo a te. Non so… Riguardo tutto… Cose del sesso… Cose della politica… Quelle cose lì che con i grandi non puoi mai discutere…
Eravamo rimasti qualche ora all'ombra degli alberi, seduti sulle panchine. La discussione era autentica, spontanea, naturale. Un esempio di comunicazione vera. Mi aveva insegnato molto di più di ciò che avevo letto in montagne di trattati. Dei quali solo qualche volta avevo trovato conferme, soprattutto nella letteratura pedagogica anarco libertaria.
Da quell'esperienza era nato il gruppo novarese del Movimento di Cooperazione Educativa. Io e l'amico maestro di Omegna, ci eravamo fatti carico di formare un gruppo; di lanciare un appello; un proclama. Avevamo organizzato per diversi anni durante l'estate di vacanza corsi residenziali di qualche settimana, ottenendo e facendoci prestare le strutture inutilizzate: vecchi collegi dismessi, colonie momentaneamente libere… Amici e compagni di altre realtà associativa erano venuti volontariamente gratuitamente con noi da altre città: Torino Milano Roma…
Anche noi avevamo socializzato la merenda della conoscenza, delle tecniche e delle idee educative e didattiche. Chiunque regalava a chiunque ricevendo in cambio da chiunque.
Artemisia era rimasta a guardarlo estatica. Aveva gli occhi lucidi. Non disse nulla. Gli carezzò dolcemente una guancia lasciando lì appoggiata la sua mano morbida. Per un tempo indefinito.
E solo dopo aveva ripetuto: "da quando ti ho rivisto, da quando ti ho rincontrato, ho sempre pensato e lo penso sempre di più che tu sei l'uomo della mia vita. Quello che avevo sempre cercato desiderato sognato.…"
Poi erano andati di là, come facevano sempre, e il loro paradiso non era più fatto soltanto di parole immagini pensieri ed emozioni, ma era diventato ancora più vasto totale totalizzante infinito… E come sempre ci si erano messi a giocare dentro, a nuotare, a volare…
Nanni Omodeo Zorini Qfwfq