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venerdì 29 luglio 2022

 

"... MA NON PORTAR VIA IL TUO RICORDO,
LASCIALO, SOLO, NEL MIO CUORE,
TREMORE DI BIANCO CILIEGIO NEL MARTIRIO DI GENNAIO..."
Invocazione che amo, che ho sempre amato e dedicato finora soltanto a donne… e in particolare quando le stavo proprio io abbandonando.
Qui, il ricordo che voglio conservare nel mio cuore, è quello di quella casa; l’avevano comprata i nonni materni agli inizi del secolo scorso. Il nonno Giovanni dirigeva nella metropoli della madonnina l’ufficio di igiene. La nonna aveva lavorato nelle cooperative, era abbastanza colta che aveva fatto le scuole tecniche. Da vedova aveva continuato a pregare nel buio dei suoi occhi che la cataratta aveva lentamente spento. E ci venivano da Milano.
Aveva conservato il tetto massiccio di beole appoggiato su travature robuste di quercia. Le finestre avevano un’apertura limitata, pur essendo una casa abbastanza moderna rispetto a quelle dei valligiani, conservava e rispettava le dimensioni piccine di porte e finestre per risparmio di calore.
Al piano terra due ampi locali: la cucina col pavimento a tavole di serizzo, su un lato estremo, come una piccola caverna, la nicchia del camino con ai due lati le panche consunte per scaldarsi mentre cuocevano le polente, le minestre di riso e prezzemolo o le caldarroste.
La vampata di caldo della fiamma di legna sui corpi e soprattutto sul volto.
Da bambini piccini raramente ti lasciavano stare sulle panche accanto al fuoco da solo.
Sotto una delle due finestre, a lato mezzogiorno, un lavello di marmo rustico; con la cannetta dell’acqua che buttava gelida schizzando tutto intorno.
Sotto l’altra finestra di pietra e di cemento, un fornelletto: sul davanti due imboccature per metterci la brace presa dal camino; in alto due tondi vuoti sui quali appoggiare a cuocere le pentole.
Immancabilmente di rame annerito. Solo negli ultimi tempi erano arrivate anche quelle scartate dalla città di alluminio rovinato e poroso.
Poi ci venne posto un fornello a bombola.
Parallelamente, sull’altro lato della casa un impiancito di tavole di legno risalenti probabilmente all’epoca dell’acquisto, inizi del secolo scorso. Ci stava ancora un immenso pianoforte a coda. Che era stato prestato alla parrocchia, raccontavano, e l’avevano talmente poco usato come risultava dai cerchi ruggini dei vasi che avevano appoggiato sulla copertura superiore. I tasti bianchi ma anche quelli neri sembravano una dentatura malata di piorrea: alcuni restavano abbassati impotenti e muti; altri rispondevano al dito ma le corde ruggini e trascurate emettevano suoni stonati…
Sulla credenza di lato oggetti di marmo lavorato e scolpito. Uccellini che facevano finta di becchettare sopra una ciotola. Un mortaio che non era mai stato usato per preparare battuti e salse.
Alle pareti: acqueforti cupe con il loro bianco e nero, raccontavano episodi dell’Eneide.
Le pareti non prive di cenni di scrostature pudicamente mostravano il vezzo di decorazioni in alto, a metà, e in basso all’altezza dello zoccolo. Di temi colori gialli verdi e azzurri. Di quelle decorazioni fatte a rullo…
Una massiccia libreria a base quadrata era ricolma di libri antichi. Lì dentro ci avevo trovato i miei amatissimi “della prattica dello infermiero”, e anche “secreti di medicina”.
Insieme ai tantissimi altri sul mesmerismo, la diagnostica col pendolino, come fare ballare il tavolo, per le sedute spiritiche, insieme a rimedi da negromanti e streghe.
Adolescente, mi ero compiaciuto e sbellicato dalle risa nell’apprendere il rimedio sicuro “per usare di più e più a lungo con la donna” («remedio: prendasi il pettenecchio di un volpe, lo si tenda a farlo diventare foglio come una pergamena; lo si disponga e avvolga sopra il proprio pettenecchio; se ne avrà molto piacere dando molto piacere anche alla donna»: non spiego naturalmente cosa significhi pettenecchio)
Al piano superiore al di qua e al di là della scala due stanzette destinate a camera da letto.
Una chicca curiosa: non essendoci il water, in molte stanze soprattutto nelle camere c'erano le cosiddette "comode" , cioè delle poltrone che velavano sotto il cuscino attraverso un foro un vaso da notte o un pitale.
Da una di quelle camerette l’accesso a un cortiletto sul retro. Con una canaletta centrale nella parte più bassa per portar via le acque piovane. Il muro, arrampicato alla roccia sottostante che svettava in alto e che chiudeva il cortile recava tralci di vite americana.
Alla sinistra un portoncino permetteva di scendere i gradini e arrivare fino al terrazzo antistante la casa. A livello del terreno esterno un cancello sgangherato di ferro verniciato di verde: una specie di giostra per i bambini di quel tempo. Musicale peraltro perché cigolava deliziosamente. Per celare le merende e i pasti che venivano consumati sulle sdraio e sui tavoli di bambù nel terrazzo dell’ingresso, una boscaglia di alloro, altri arbusti e immancabile la rosa canina. La nonna di quei bambini ci faceva una marmellata deliziosa.
Che oltre ad essere buona aveva sicuramente anche delle virtù e dei poteri magici.
Ma i bambini ci rimasero talmente poco in quella casa fatata, ed ebbero modo di assaggiare pochissime dosi di marmellata di rosa canina: ebbero un’infanzia scarognata e schifosa.
Prestissimo orfani.
Ebbero i boccoli dei capelli biondo scuro rapati a zero negli orfanotrofi democristiani.
Ne conobbero "di tutti i colori", e soprattutto conobbero la tonalità grigio-nera-buia.
Luogo felice da sogno di una breve pausa della mia infanzia.
Una volta, diverso tempo addietro, in altri giri con un’altra moto precedente a questa, ci passai… Orrore. Squallore. Oscena visione.
Chi ne era proprietario aveva dovuto voluto far cassa, vendendola al miglior offerente. Mobili di noce e di ciliegio del secolo precedente ancora compresi.
L’orrore consisteva nelle travature per allargare le finestre; per smantellare il tetto di beole; non ci voleva troppa fatica per immaginare…
Il cuore sanguinante girai la moto e non tornai assolutamente mai più a vedere lo scempio che sicuramente avevano completato.
Un presentimento già me lo suggeriva…
Al posto delle beole troppo pesanti per le travature del solaio del tetto: seriali tegole canadesi…
Le finestre avrebbero raddoppiato la loro imboccatura: e sarebbero tutte state decorate con quella mutanda delle tende colorate come le brache di Obelix…
Auto di ogni tipo, ma soprattutto gli orribili suv, avrebbero devastato il piazzale di sassi di fiume davanti alla parrocchiale di San Nicola di marmo striato di ruggine.
La casa e la chiesa del santo guardavano in linea d’aria le cave di marmo del Duomo di Milano sopra Candoglia.
Con la fantasia orripilata misi i tappi alle orecchie per non sentire/immaginare le musiche oscene da discoteca…
Per questo, mi sia ulteriormente amico come sempre Federico Garcia Lorca, prestandomi i suoi versi che io amo e apprezzo. E che dedico ora allora e sempre a quell’altra casa, quella di prima, quella delle foto che compaiono qui.
Sulla sinistra come era a quel tempo. E nella foto quadretto a destra la parrocchiale. Aveva trovato quel quadretto con foto una giovane donna che me ne aveva fatto un regalo, avendolo trovato in un mercatino delle cose dei tempi addietro, nell’Ossola stupenda.
Riconosceva la casa, per esserci venuta a farsi e a farmi compagnia piacevolissima.
E anche lei mi aveva regalato il suo ricordo, prima che venisse devastato dai tegoli canadesi e dai tendalini rigonfi a strisce gialle e blu.
MA NON PORTAR VIA IL TUO RICORDO, LASCIALO, SOLO, NEL MIO CUORE… Te ne prego, ti scongiuro, il passato conserva una dolcezza immensa; quante stupende e tenere abitazioni dell’Ossola si sono travestite da villini squallidi della bassa lombarda e piemontese.
Tu, almeno tu, amata casa di Ornavasso della mia infanzia, rimani come eri. Per sempre, se riesci, se puoi, se vuoi, per me
almeno...

domenica 24 luglio 2022

 CHIEDO ASILO-Marco Ferreri-1979.

Con una grande nostalgia, sono ritornato ad un vecchio amore mentale, professionale, artistico e cinematografico. Ero andato per un convegno del movimento di cooperazione educativa a Livorno. Credo sia stato appena dopo il 1981. Avevo appena smesso di fare il maestro elementare militante, vincendo il concorso a direttore didattico.
Accampato con altri smandrappati studenti universitari in un alloggio collettivo minuscolo, disordinato, con i lavelli stracolmi fino al soffitto di piatti sporchi da lavare.
Avevo rivisto un’amica cara e dolcissima che stava per laurearsi in medicina. Mi aveva regalato dei sassolini levigati dal mare perché li tenessi sempre in tasca come portafortuna. L’avevo conosciuta al festival itinerante del teatro in piazza a Santarcangelo di Romagna.
Il protagonista è un Benini non ancora gigione istrionico; pieno di dolcezza, garbo, sensibilità e umanità. Ferreri l’ha diretto in un modo straordinario e magistrale.
Scuola materna/asilo. Bambini deliziosi, sguardi luminosi e radiosi. Era una delle prime volte che una figura maschile assumesse ruolo di maestro di scuola materna.
Di lì a qualche anno sarebbe capitato anche nel mio circolo didattico di Oleggio: l’unico maestro della provincia di Novara era capitato nel mio circolo! Anche da me: maestre, bambini e bambine, genitori: entusiasti! La scuola materna smetteva un pochino almeno di essere una scuola mamma mammona…
Le gags e le battute che Ferreri mette in bocca al maestro comico me le ricordo ancora tutte una per una. “Sono la vostra nuova maestra. Anch’io aspetto un bambino, sono incinto. Bambini vi amo. Carnevale impazza (mentre un pupazzo in cartapesta gigantesco con le fattezze di un cartone per bambini della televisione di quei tempi,e i bambini tritissimi ).
Il mare è la nostra mamma…”
Il maestro di scuola materna che aveva onorato e impreziosito la scuola del mio circolo didattico, ebbe la sciagura e la sventura di essere investito da un’auto casualmente.
L’attore comico qui ancora pulito, naif, sempre bizzarro e creativo ma ancora autentico, ora è diventato un’altra cosa.
Mi rivedo e immagino ancora più di quarant’anni fa, a consumare un pasto alla mensa universitaria, abusivamente perché non ero uno studente; il buono pasto aveva un prezzo politico bassissimo… Chiacchieravo con amiche e amici studenti che avevano almeno la metà dei miei anni. Affettuosamente invidiandoli: la mia università me l’ero fatta con i treni, con tanti anni fuori corso perché lavoravo già da tempo, una occasione di immersione totale in una dimensione che io non avevo potuto vivere a tempo debito.
Chiedo asilo. Ci avevo ritrovato il mio innamoramento per l’insegnamento, per la scuola elementare e anche materna, per i bambini… Per la dimensione personale esistenziale che per tanti anni ho vissuto, goduto, e che mi ha arricchito.
Un grazie a Marco Ferreri; e anche indirettamente a Roberto Benigni com’era ai suoi esordi; (“ogni adulto è un bambino andato a male”; anche questo attore comico è il se stesso di un tempo purtroppo anche lui ormai andato a male!) al mio ricordo, al me stesso che ero e che ho conservato dentro; alle persone che ho avvicinato; a quel giovane maestro alto, che si chiamava e si chiamerà sempre e per sempre Paolo Cardano, allampanato, dallo sguardo immenso e dolcissimo che i bambini hanno amato, e che assomigliava un pochino all’animatore che affianca il maestro e che compare nel film che ho appena guardato…
Nanni Omodeo Zorini
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