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martedì 27 febbraio 2018

SOGNI D'ACQUA

SOGNI D'ACQUA

Di certo c'era qualcosa di strano. Eppure tutto era molto naturale. Autentico. Gli era già successo qualche giorno prima. Qulla volta, e gli veniva da ridere, si era ritrovato a girare per la città da ragazzo. Con i calzoni lunghi che però arrivavano a malapena alla caviglia. Si passava ogni tanto una mano sui capelli per tenerli su dritti. A nascondere che fino a poco prima li aveva avuti rasati a zero. Ora no. Si sentiva in tutta la sua altezza. Come sempre spilungone. E il passo dinoccolato. Trent'anni allora?
E io lo guardo da fuori mentre ora racconto, lo vedo riflesso nelle vetrine del corso Cavallotti. E lo riconosco. È proprio lui. Sono proprio io mi viene da dire…
Lui, cioè io, abbiamo appena comperato le sue micidiali sigarette. Dal pacchetto blu massiccio.
Ma in saccoccia sento con la mano il duro della radica della prima pipa. E la mistura che ho appena imparato a fare. Un pacchetto di Italia; uno di Anphora aromatic, e una dose di quel tabacco nero comprato in Svizzera. Latakia. Viene fatto affumicare sul legno di sandalo e aromatici.
Mentre ci avviciniamo all'angolo delle ore, un gruppetto di ragazzi e ragazze. Occhiata di sfuggita. Ma non troppo.
Uno sguardo celeste esce dal gruppo e mi cerca. Insinuante.
Garbatamente provocatorio.
Né il mio sosia né io ce la sentiamo di affrontare ora questa emozione.
Mi  infilo a vedere delle svendite in un negozio.
Uscendo il gruppetto è scomparso.
Riprendono  i battiti cardiaci normali.
Ho perduto quello sguardo. Per ora.
Mi affaccio poco dopo in piazzetta. Piazza delle erbe. E subito tra gli altri quel gruppetto mii salta agli occhi.
Forse devo essere in bici.
E mi soffermo per legarla ad una ringhiera, ricordo a memoria la combinazione del lucchetto: 492…
È tutto molto diverso. Improbabile. Incredibile.
E insieme completamente naturale.
Vero.
Mentre mi sto rialzando dopo aver assicurato la ferraglia nera della mia bici, con i freni a bacchetta, quella voce.
La voce.
«Sei proprio sicuro, di volerla legare e lasciare qui?»
Appena mi sono rialzato guardo dall'alto al basso quegli occhi azzurro cielo. Quegli occhi che da quand'era bambina amano sempre guardare all'insù.
Eppure riesco a continuare a respirare.
«Sì. Certo. Sono proprio io»dice.
Ha avuto una leggera trasformazione da quel tempo.
Si è fatta donna. Più donna dell'adolescente che era allora.
Tiene i capelli biondi legati a coda di cavallo. E appena sopra la fronte ha appoggiati gli occhiali da sole scuri.
E  non sono neppure spaventato. Frastornato. È  normale che tutto sia così.
I  decenni di età che ci separavano si sono assottigliati.
Lei ha ora circa vent'anni. Io al massimo 30.
Dimentico la bici, e mi lascio prendere la mano dalla sua. Poi lei mi infila tutte due le sue tra le mie. Sono fredde.
«Me le scaldi un po'»
Non  è una domanda. Un'affermazione.
Una constatazione.
Un dato di fatto.
Tenendole le mani tra le mie le sento intiepidirsi.
Infila le dita tra le mie.
La piazzetta delle erbe non è più a fuoco.
Neanche i suoi compagni di chiacchiere.
Nelle vetrine io e il mio sosia, e certo anche lei, vediamo passare un uomo alto, dai capelli ricci e folti, che tiene tra le proprie mani le mani di una ragazza fantastica.
Si guardano.
Camminano.
Escono lentamente dai portici.
Sanno certamente dove stanno andando.
E anche cosa faranno.
Credo di saperlo anch'io.
Non solo il mio sosia che c'è lì accanto a lei.
«No. Io non mi sono ancora sposata. E neanche tu vero. Però siamo gli stessi. Quelli che dovevano incontrarsi da millenni…»

La luce azzurra dell'umidificatore a ultrasuoni, colora il suo vapore freddo.
Sarei tentato, ora, di allungare la mano per sentire se lei è qui accanto a me.
Mi piacerebbe sentire il tepore del suo corpo.
Toccare  la sua consistenza. Sfiorare il suo morbido nudo bianco.
Ma  preferisco restare in questa dimensione indeterminata.
Dovunque  lei sia non voglio turbare il suo sonno.
Abita comodamente nel mio sogno.
Io nel suo.
Nessun rimpianto per la vecchia bicicletta rugginosa. Rimasta chissà dove.
Tornerò a cercarla un'altra volta. Magari, chissà mai che la rincontro…

martedì 20 febbraio 2018

CANZONE BAMBINA

CANZONE BAMBINA
E PARTIVANO DI CONTINUO COME RONDINI
MANTRA AMOROSI SCRITTI TUTTI A MAIUSCOLE
COSÌ PERCHÉ QUELLO ERA IL GIOCO DICEVANO
SGUARDI E SORRISI IMPERTINENTI E IMPUDICHI
SE NE STAVANO ACQUATTATI DIETRO GLI ANGOLI DELLE STRADE
E FACEVANO CAPOLINO DAL TRONCO DEGLI ALBERI
NEL NASCONDARELLO SE TI TROVO TI BACIO
E SE NON MI TROVI SUBITO TI FACCIO UN CENNO CON LA MANO
MANTRA E CAROSELLI ERANO GIOSTRE ALL'INSEGUIMENTO DI SE STESSI
SCIARADE SCIOCCHE E GIOCHI DI PAROLE COME ANTIPASTO
LA CENA ASPETTAVA ANCORA UN POCO SOSPESA
DI ESSERE SERVITA SU LENZUOLA D'ARGENTO DELLE NUVOLE
INCREDIBILE GOURMET DI CASTITÀ RITUALI
CHE CELAVANO RISATE SOFFOCATE E ORGASMI
SULL'ORLO DELLA SERA E DEL TEMPO
DOVE I CONFINI ERANO I BASTIONI DI ORIONE
NULLA MAI DAVVERO FINISCE MA SOLO RICOMINCIA
IL TRONCO LEGNOSO PULSAVA DI GEMME PRONTE A SBOCCIARE
LE PRIMAVERE RESUSCITAVANO ANCORA DACCAPO DI NUOVO
DI LÌ A POCO PERÒ DI LÌ A POCO CERTO UN MINUTO ANCORA TI PREGO
NEL SOLE DI FEBBRAIO INTENSO A SCHERNIRE L'INVERNO QUASI MORIBONDO
NEL SORRISO SPALANCATO DI CIELI TERSI DI SGUARDI
COME SEMPRE DUNQUE PIÙ DI SEMPRE ANCORA
IL CANTO DEL TUO RESPIRO UBRIACA L'ARIA SALTERINO
FACENDO RUOTARE LA CORDA E LE GONNELLE VOLANO E SONO AQUILONI
A MOSTRARE LE GAMBE NUDE BIANCHE CON QUALCHE GRAFFIO
CROSTICINE SECCATE DI SANGUE RAPPRESO CURATE CON LA SALIVA
A RITROVARSI SEMPRE BAMBINI E RAGAZZI DI DENTRO
NEL GIROTONDO LASCIVO E PURE CASTO CHE NON SMETTE MAI
DI RIDERE E RIDERE E RIDERE ANCORA MA TANTO
LE FILASTROCCHE DI UN TEMPO COLORITE DI SOGNI NUOVI
DI NUOVI SUONI SQUILLANTI CHE SI FANNO ECO DA SOLI
Angela Angelamantelli
ANNO ECO DA SOLI

LE OSTERIE DEI POVERI

LE OSTERIE DEI POVERI
 Modulato, morbido, fluente il tuo racconto continua... E ti ci vedo come immagino fossi nella ragazzina che fai rivivere regalandoci quel suo e tuo purgatorio immeritato e doloroso.
Ed è proprio, per me che ti leggo, la Lucia di quel tempo che sta scrivendo. E raccontando.
Altre volte e altrove il Nanni bambino e ragazzo aveva raccontato.
Qui sono l'io di oggi, che ricorda e racconta.
Ci ho ripensato di recente a un racconto che mi stava frullando in testa. In pieno centro della città dove abita mia figlia, c'è ora un ristorante molto elegante, raffinato, che offre cucina tipica di qui.
Hanno allargato la porta dell'ingresso. Una scritta ricorda ancora la funzione che aveva un tempo.
Era una mescita di vino sfuso. Un portoncino di legno vecchio verniciato molte volte di colore bruno grigio restava spalancato nelle ore di apertura.
Dovevo esserci entrato qualche volta. Da ragazzo per comprare da bere per i miei.
Un odore acre di vino galleggiava nell'aria.
Un bancone o tavolone sul quale erano disposti dei piccoli minuti bicchieri.
Nel retro damigiane di vari generi di vini. Presumo di qualità abbastanza scadenti.
I clienti avevano diritto ad assaggiare in quei piccolissimi bicchieri prima di scegliere.
Ma c'erano anche clienti e assaggiatori che ne approfittavano per bere gratis la droga dei poveri.
Facevano quello che si diceva il giro delle osterie o anche in modo più ironico il giro delle chiese.
Nella mia antica a casa di fine 700, mia madre, che non aveva reddito avendo smesso da anni di cantare come soprano alla scala ed essendo rimasta giovane vedova, aveva messo a disposizione di un venditore di vino il piano terra. In affitto.
Un'immensa stanza di circa 50 metri quadrati dal soffitto altissimo di 5 o 6 metri tutto a cassettone di noce dai quali spuntavano vecchi chiodi per appenderci qualcosa un tempo.
Il pavimento di piastrelle di cemento verniciato. Il bellissimo camino tardo barocco era nascosto dal bancone.
Nel piano sottostante una cantina a volte altissime , e, su cavalletti e assi di legno, infinite damigiane.
Avevo scoperto bene poi molti anni più avanti questi particolari quando avevo ristrutturato tutto il piano terra per fare nel mio alloggio... Il soffitto della cantina recava ancora i fori con i tubi che dalle damigiane portavano direttamente il vino sopra il bancone per spillarlo a rubinetto.
La fiaschetteria era gestita da due fratelli veneti. Nel cortile ci si affacciava un alloggio di altri inquilini. Mentre il marito era a lavorare in fabbrica , sua moglie una bella donna che aveva un occhio che guardava per conto suo, stendeva il bucato nel cortile cantando canzoni napoletane.
Uno dei vinai spesso si affacciava nel cortile e ricordo le rare volte che ero a casa dall'istituto che cantava una canzoncina di quel tempo " Ven chi nineta suta l'umbrelin, ven chi nineta te darù un basin..."la Ninetta che veniva invitata sotto l'ombrellino che non c'era a ricevere un bacino sorrideva compiaciuta a quell'approccio amoroso che io facevo finta di non avere notato.
Ricordo che una volta uno dei due fratelli, quello più simpatico, aveva accompagnato me e mio fratello in cantina per farci vedere come "si faceva il vino"...
E ci aveva spiegato che bastava prendere un po' di vino dalle damigiane, mescolarlo con l'acqua e mettergli delle polverine che conosceva lui e nessuno se ne sarebbe accorto... Credeva che i ragazzini di allora non notassero i suoi approcci amorosi e la sofisticazione del vino...
Anche lì, al bancone appoggiavano i gomiti gli avventori che venivano a scroccare un assaggio di vino, per una leggera bevuta a puntate...
Probabilmente erano molto diffuse in città mescite di vino per i bevitori poveri.
All'istituto i nostri assistenti ricevevano uno stipendio e salario da fame. Per il fatto che avevano l'alloggio e il vitto gratis e per il lavoro modesto e meschino che svolgevano.
Molti di loro nelle ore di libera uscita in cui non erano presenti a farci da carcerieri e da guardiani, giravano le osterie. Noi ragazzi li sentivamo mentre parlottavano tra loro credendo di nuovo, anche loro, che noi ragazzi non capissimo.
Un assistente aveva ancora residui di parlata Veronese. Un altro era molto giovane, camminava coi piedi piatti. Lo chiamavamo Il paesano, "paisan" in dialetto.
E quando ci castigava dava delle sberle terribili con le sue grosse mani che sembravano guantoni da boxe.
Quando una volta mi sorprese commettere, da ragazzo il "terribile comportamento", di percorrere le poche centinaia di metri dalla mia scuola media fino al portone lasciandomi accompagnare da una ragazzina, poichè mi vergognavo a dirle che era proibito, ricevetti terribili sberle. Saltai il pranzo e rimasi un mese in castigo. Che consisteva nel trascorrere le ore di ricreazione in piedi fermo immobile accanto a una colonna mentre i compagni giocavano.
Un altro assistente che chiamavamo il polacco, per la sua origine, era ancora più perverso e sadico. Seguiva il gruppo dei ragazzi più piccoli coi quali spesso sfogava la sua rabbia costringendoli decine di volte a vestirsi e rivestirsi continuamente.
Il vino degli assaggi gratuiti probabilmente non gli bastava. Sotto il letto, dietro la tenda scorrevole dove dormiva, quando scopavamo per pulire le camerate c'erano montagne di bottiglie di superalcolici vuote.
Diverse volte l'avevamo trovato ubriaco fradicio sulle scale che portavano alle camerate. Quella massa scura del corpo immobile sdraiato sui gradini ci aveva spaventati.
Solo una volta aveva provato ad alzare le mani non solo sui bambini più piccoli o quelli di media età ma con uno più grande.
Aveva dovuto ritirarsi in un angolo spaventato squittendo come un ratto di fogna. Rannicchiato coprendosi il capo con le mani!
Il ragazzo grande gli si era ribellato apertamente.
Era, il ragazzo, quello stesso che clandestinamente mi aveva fatto avere da ragazzino la proibitissima clandestina tessera della federazione giovanile comunista.
Se me l'avessero sorpresa nelle ricorrenti perquisizioni corporali, non me la sarei cavata con le sberle che facevano rintronare la testa per ore. Sicuramente sarei stato espulso. Ma mia madre con il magro reddito degli affitti e delle poche lezioni riusciva a dare (quando venivano pagate!) dagli amanti della lirica, non ce l'avrebbe fatta.
E con aria molto distaccata posso ora ricordare quei tempi. Che mi sono tornati in mente quando sono entrato in quella trattoria elegante, dalla cucina tipica novarese, ritornando a quei magri sparuti ricordi della fiaschetteria e mescita di vino di quarto ordine, per i bevitori scrocconi, mescolati ai miei assistenti.
Che si contentavano degli assaggi in quei bicchierini minuscoli. E che probabilmente frequentavano anche i vinai della mia vecchia casa.
Dalla quale poi scomparve il bancone. Il pavimento di cemento colorato fu sostituito dal cotto ceramica. Le travi a cassettone del soffitto vennero sabbiate. Costruìi da solo un immenso soppalco a balconata per la libreria. Con la scala di legno per arrivarci. Ricordo che per un mese o più ruppi le scatole a tutto il vicinato, dal mattino prestissimo fin quasi a notte, inchiodando, avvitando e tagliando travi.
Facendone naturalmente il mio alloggio.
Il camino tardo barocco ricevette la vernicetta per somigliare un pochino a quello che era stato al tempo del cardinal Cacciapiatti che aveva abitato lì.
Che c'aveva lasciato, sotto strati numerosi di imbiancatura a calce e a colore, affreschi lugubri di festoni che per fortuna la sovrintendenza delle belle arti non scoperse mai.
Riesco ad entrare alla trattoria del centro all'angolo delle ore, accanto alla casa che ho regalato a mia figlia, e forse solo per qualche istante mi tornano in mente la mescite di vino alla buona.
E non risuonano più nella mia testa le sberle terribili o la ferocia disumana degli adulti ai quali io e tanti altri ragazzini venivano affidati in quel tempo, visto che eravamo orfani e di famiglie poco abbienti.
Ma allora le cose andavano così.
Già qualche volta ho raccontato nei miei lavori di narrativa episodi di quel tempo lontano. L’ho abbastanza elaborato. Lo racconto alle persone care. Annoiando forse a volte la donna che amo. Facendola diventare un po' mesta e malinconica.
Ma prima di chiudere quei ricordi, di metterli nel cassetto del racconto e della narrazione, mi sento vicino a tutte le persone che oggi vivono situazioni analoghe se non addirittura più brutali.
E mi sento particolarmente vicino all'amica Lucia. Alla sua infanzia che in modo accorato ci sta regalando. Con la sua scrittura magica, garbata, affettuosa.
Con la voce narrante che per me è quella della ragazzina di allora.
Grazie Lucia.
LE OSTERIE DEI POVERI
(a 
Lucia Salvato)
Modulato, morbido, fluente il tuo racconto continua... E ti ci vedo come immagino fossi nella ragazzina che fai rivivere regalandoci quel suo e tuo purgatorio immeritato e doloroso.
Ed è proprio, per me che ti leggo, la Lucia di quel tempo che sta scrivendo. E raccontando.
Altre volte e altrove il Nanni bambino e ragazzo aveva raccontato.
Qui sono l'io di oggi, che ricorda e racconta.
Ci ho ripensato di recente a un racconto che mi stava frullando in testa. In pieno centro della città dove abita mia figlia, c'è ora un ristorante molto elegante, raffinato, che offre cucina tipica di qui.
Hanno allargato la porta dell'ingresso. Una scritta ricorda ancora la funzione che aveva un tempo.
Era una mescita di vino sfuso. Un portoncino di legno vecchio verniciato molte volte di colore bruno grigio restava spalancato nelle ore di apertura.
Dovevo esserci entrato qualche volta. Da ragazzo per comprare da bere per i miei.
Un odore acre di vino galleggiava nell'aria.
Un bancone o tavolone sul quale erano disposti dei piccoli minuti bicchieri.
Nel retro damigiane di vari generi di vini. Presumo di qualità abbastanza scadenti.
I clienti avevano diritto ad assaggiare in quei piccolissimi bicchieri prima di scegliere.
Ma c'erano anche clienti e assaggiatori che ne approfittavano per bere gratis la droga dei poveri.
Facevano quello che si diceva il giro delle osterie o anche in modo più ironico il giro delle chiese.
Nella mia antica a casa di fine 700, mia madre, che non aveva reddito avendo smesso da anni di cantare come soprano alla scala ed essendo rimasta giovane vedova, aveva messo a disposizione di un venditore di vino il piano terra. In affitto.
Un'immensa stanza di circa 50 metri quadrati dal soffitto altissimo di 5 o 6 metri tutto a cassettone di noce dai quali spuntavano vecchi chiodi per appenderci qualcosa un tempo.
Il pavimento di piastrelle di cemento verniciato. Il bellissimo camino tardo barocco era nascosto dal bancone.
Nel piano sottostante una cantina a volte altissime , e, su cavalletti e assi di legno, infinite damigiane.
Avevo scoperto bene poi molti anni più avanti questi particolari quando avevo ristrutturato tutto il piano terra per fare nel mio alloggio... Il soffitto della cantina recava ancora i fori con i tubi che dalle damigiane portavano direttamente il vino sopra il bancone per spillarlo a rubinetto.
La fiaschetteria era gestita da due fratelli veneti. Nel cortile ci si affacciava un alloggio di altri inquilini. Mentre il marito era a lavorare in fabbrica , sua moglie una bella donna che aveva un occhio che guardava per conto suo, stendeva il bucato nel cortile cantando canzoni napoletane.
Uno dei vinai spesso si affacciava nel cortile e ricordo le rare volte che ero a casa dall'istituto che cantava una canzoncina di quel tempo " Ven chi nineta suta l'umbrelin, ven chi nineta te darù un basin..."la Ninetta che veniva invitata sotto l'ombrellino che non c'era a ricevere un bacino sorrideva compiaciuta a quell'approccio amoroso che io facevo finta di non avere notato.
Ricordo che una volta uno dei due fratelli, quello più simpatico, aveva accompagnato me e mio fratello in cantina per farci vedere come "si faceva il vino"...
E ci aveva spiegato che bastava prendere un po' di vino dalle damigiane, mescolarlo con l'acqua e mettergli delle polverine che conosceva lui e nessuno se ne sarebbe accorto... Credeva che i ragazzini di allora non notassero i suoi approcci amorosi e la sofisticazione del vino...
Anche lì, al bancone appoggiavano i gomiti gli avventori che venivano a scroccare un assaggio di vino, per una leggera bevuta a puntate...
Probabilmente erano molto diffuse in città mescite di vino per i bevitori poveri.
All'istituto i nostri assistenti ricevevano uno stipendio e salario da fame. Per il fatto che avevano l'alloggio e il vitto gratis e per il lavoro modesto e meschino che svolgevano.
Molti di loro nelle ore di libera uscita in cui non erano presenti a farci da carcerieri e da guardiani, giravano le osterie. Noi ragazzi li sentivamo mentre parlottavano tra loro credendo di nuovo, anche loro, che noi ragazzi non capissimo.
Un assistente aveva ancora residui di parlata Veronese. Un altro era molto giovane, camminava coi piedi piatti. Lo chiamavamo Il paesano, "paisan" in dialetto.
E quando ci castigava dava delle sberle terribili con le sue grosse mani che sembravano guantoni da boxe.
Quando una volta mi sorprese commettere, da ragazzo il "terribile comportamento", di percorrere le poche centinaia di metri dalla mia scuola media fino al portone lasciandomi accompagnare da una ragazzina, poichè mi vergognavo a dirle che era proibito, ricevetti terribili sberle. Saltai il pranzo e rimasi un mese in castigo. Che consisteva nel trascorrere le ore di ricreazione in piedi fermo immobile accanto a una colonna mentre i compagni giocavano.
Un altro assistente che chiamavamo il polacco, per la sua origine, era ancora più perverso e sadico. Seguiva il gruppo dei ragazzi più piccoli coi quali spesso sfogava la sua rabbia costringendoli decine di volte a vestirsi e rivestirsi continuamente.
Il vino degli assaggi gratuiti probabilmente non gli bastava. Sotto il letto, dietro la tenda scorrevole dove dormiva, quando scopavamo per pulire le camerate c'erano montagne di bottiglie di superalcolici vuote.
Diverse volte l'avevamo trovato ubriaco fradicio sulle scale che portavano alle camerate. Quella massa scura del corpo immobile sdraiato sui gradini ci aveva spaventati.
Solo una volta aveva provato ad alzare le mani non solo sui bambini più piccoli o quelli di media età ma con uno più grande.
Aveva dovuto ritirarsi in un angolo spaventato squittendo come un ratto di fogna. Rannicchiato coprendosi il capo con le mani!
Il ragazzo grande gli si era ribellato apertamente.
Era, il ragazzo, quello stesso che clandestinamente mi aveva fatto avere da ragazzino la proibitissima clandestina tessera della federazione giovanile comunista.
Se me l'avessero sorpresa nelle ricorrenti perquisizioni corporali, non me la sarei cavata con le sberle che facevano rintronare la testa per ore. Sicuramente sarei stato espulso. Ma mia madre con il magro reddito degli affitti e delle poche lezioni riusciva a dare (quando venivano pagate!) dagli amanti della lirica, non ce l'avrebbe fatta.
E con aria molto distaccata posso ora ricordare quei tempi. Che mi sono tornati in mente quando sono entrato in quella trattoria elegante, dalla cucina tipica novarese, ritornando a quei magri sparuti ricordi della fiaschetteria e mescita di vino di quarto ordine, per i bevitori scrocconi, mescolati ai miei assistenti.
Che si contentavano degli assaggi in quei bicchierini minuscoli. E che probabilmente frequentavano anche i vinai della mia vecchia casa.
Dalla quale poi scomparve il bancone. Il pavimento di cemento colorato fu sostituito dal cotto ceramica. Le travi a cassettone del soffitto vennero sabbiate. Costruìi da solo un immenso soppalco a balconata per la libreria. Con la scala di legno per arrivarci. Ricordo che per un mese o più ruppi le scatole a tutto il vicinato, dal mattino prestissimo fin quasi a notte, inchiodando, avvitando e tagliando travi.
Facendone naturalmente il mio alloggio.
Il camino tardo barocco ricevette la vernicetta per somigliare un pochino a quello che era stato al tempo del cardinal Cacciapiatti che aveva abitato lì.
Che c'aveva lasciato, sotto strati numerosi di imbiancatura a calce e a colore, affreschi lugubri di festoni che per fortuna la sovrintendenza delle belle arti non scoperse mai.
Riesco ad entrare alla trattoria del centro all'angolo delle ore, accanto alla casa che ho regalato a mia figlia, e forse solo per qualche istante mi tornano in mente la mescite di vino alla buona.
E non risuonano più nella mia testa le sberle terribili o la ferocia disumana degli adulti ai quali io e tanti altri ragazzini venivano affidati in quel tempo, visto che eravamo orfani e di famiglie poco abbienti.
Ma allora le cose andavano così.
Già qualche volta ho raccontato nei miei lavori di narrativa episodi di quel tempo lontano. L’ho abbastanza elaborato. Lo racconto alle persone care. Annoiando forse a volte la donna che amo. Facendola diventare un po' mesta e malinconica.
Ma prima di chiudere quei ricordi, di metterli nel cassetto del racconto e della narrazione, mi sento vicino a tutte le persone che oggi vivono situazioni analoghe se non addirittura più brutali.
E mi sento particolarmente vicino all'amica Lucia. Alla sua infanzia che in modo accorato ci sta regalando. Con la sua scrittura magica, garbata, affettuosa.
Con la voce narrante che per me è quella della ragazzina di allora.
Grazie Lucia.


MERCATINO ASSOPACE

Nel febbraio freddo, una terza domenica, come tante. Scatoloni e sacchi pieni di oggetti di altre vite. Con tracce mnestiche di sorrisi defunti. Nel quartiere dei casermoni alti di cemento. Dove avevano stipato ondate di migrazione interna.
Migliaia di anni infiniti a migrare. Dalle afriche a popolare il mondo. A conoscere. Scambiare. Contaminarsi arricchendosi e arricchendo. Fino all'epoca amara e malata che regala meduse di sacchetti di cellophane per pasti voraci e mortali. Cetacei e altri mammiferi marini spiaggiati gonfi di morte.
Golosità povera e misera di vecchie cose e oggetti di cucine dismesse. Abiti abbandonati di vita.
Nella domenica fredda, a febbraio.
A raggranellare qualche soldino per minuscole gocce di speranza. Nell'ignoranza della istituzione. Troppo distratta a tentare di vendere illusioni del bingo elettorale.
"vota Antonio vota Antonio vota Antonio". Ironizzava sarcastico il principe Totò.
Imbelli insipienti rivestiti a lusso. Per raccontare fandonie con ignoranza e malafede.
Giocando il gioco delle tre carte con un mazzo truccato e segnato.
"Sai , questa volta proprio, credo che non riuscirò a fare lo sforzo di andare a votare…"
E lo dice con un sorriso di scherno pieno di amarezza e di dolore.
L'unica e ultima arma per la recita della democrazia. Con la lama spuntata.
E ride amaro, nel dire che anche i nuovi Masanielli non han trovato di meglio sui loro sillabari, che provare a raccontare che c'era anche il fascismo buono.
A qualcuno questo servizio di tazzine spaiate potrebbe ancora andar bene…
E quelle serie di bicchieri mai usati.
Consola solo, un pochino, sapere dove andranno i magri soldini raccolti.
Tutti sorridiamo di speranza. Ma fa male alla bocca. E anche al cuore.
Eppure continuiamo volentieri a buttare col contagocce la miseria racimolata che è ricchezza.
Solidarietà di benevolenza buona. Che è l'unica ricchezza di cui disponiamo.
Oltre alla rabbia, certo.

GUARIGIONE TOTALE

GUARIGIONE TOTALE
La bambina dagli occhi di cielo, quando si sentiva sola e un po' triste, in passato, e si era spesso inventata dei sogni da raccontarsi. E qualche volta li aveva lasciati anche diventare veri.
Ora, quando cominciava di nuovo un viaggio fantastico o reale nel bosco, provava apprensione, fastidio, schifo e ribrezzo…
Paura, ma una paura brutta. Che ora non voleva più .
Temeva le ombre di un tempo le saltassero fuori a dominarla. Di quando era la bambina di un tempo lontano e anche vicino, e non aveva saputo resistere e ci era entrata dentro. Ora quel buio sordido e malato le faceva finalmente repulsione.
Finalmente aveva dato un volto definitivo all'unico uomo nero dal quale voleva essere presa posseduta abusata violentata in tutti modi. In lui trovava bellezza interiore fisica e spirituale insieme la brutalità di cui era ghiotta. Il sogno poteva finalmente considerarsi consolidato per sempre.
E mentre si avviava nel suo bosco mentale, aspettava solo la sua presenza. Schivò con ribrezzo immagini sordide che uscivano dal suo immaginario. E dai rami .
Sentiva un passo fermo che la stava seguendo avvicinandosi. E proprio quando temeva incontrare il buio malato, sentii una mano calda che da dietro le si poneva sul collo.
Giro solamente lo sguardo. Riconobbe il suo sogno autentico.
L'uomo alto la guardava con occhio sornione. Proteggendola. Lo guardò dal basso in alto con il suo eterno occhio di bambina, come faceva sempre. Finalmente aveva trovato il suo vero bruto, un brutto davvero bello. Dolce e insieme violento. Brutale e insieme paterno. Con quella mano sul collo capì che ora diventava assolutamente libera dai suoi fantasmi passati. Che aveva subito non osando dire di no. Bambina piccina. Donna matura. Bisognosa di cure. Ora avrebbe avuto tutto.
Cure. Violenza. Perversione. Trasgressione. Erotismo. Dominio.
Squallidi mostriciattoli fuggivano per sempre acquattandosi nel proprio fango sordido.
Finalmente aveva tutto in uno. Forte. Brutale. Lascivo. Possente. Assoluto e unico.
La bambina donna che si era per tanto tempo creduta perduta nel bosco, era tornata ad essere proprietà esclusiva del suo padrone unico. Al quale erada sempre destinata.
Sentì un fremito forte, più intenso delle altre volte che ingenuamente si era lasciata catturare, capii che finalmente era arrivata davvero a casa. E si sentì finalmente pulita, nuda completamente, e regalò una volta per tutte e per sempre il proprio sogno reale, fantastico, totale, al principe padrone della sua anima…
Aveva rimesso insieme la bambina abusata che aveva dentro, la donna matura e golosa, perché ora sapeva con certezza che il suo bisogno compulsivo solo così e solo da lui poteva essere saziato.
Simulacri oscuri finirono muti nella spazzatura.
Girò il volto, gli offerse la bocca al bacio penetrante, lubrico, profondo e assoluto.
Dall'alto lui la tenne accucciata tutta con le sue varie componenti femminili al suo corpo antico e sempre nuovo. Il bosco finiva per scomparire.
Era tornata per sempre nel letto che era suo e di lui. Tirò un grosso sospiro. Finalmente guarita nell'anima e nel corpo, si fece possedere tutta quanta dentro e fuori. Sentiva la carne di lui entrarle dentro. Le sue mani girarla da tutte le parti impastandola. Dominata, offertasi, divenne finalmente quello che sempre aveva desiderato. Il regalo d'amore, libera e insieme schiava, per l'uomo che sapeva farla godere, brutalizzarla, coccolarla e proteggerla, e soprattutto amarla.
Seppe che ormai non poteva più perder la strada. Lui era la sua strada. La sua meta. Con lui il viaggio diventava definitivo.
Guidando la sua piccola auto dorata ovale come un disco volante, si avviò rassegnata al lavoro noioso. Il suo corpo e la sua anima erano rinfrancati. Si sentiva più forte. Sicura. Non era più sola. Ora.
Aveva trovato il suo ovunque e dovunque. Affetto, trasgressione, dominio, possesso, di dedizione totale, e solo il suo principe barone sultano babbo maestro e curatore si sarebbe occupato per sempre di lei. Per piacere. E soprattutto per amore.

COSÌ VA IL TEMPO

COSÌ VA IL TEMPO

cosa vuoi e ben stato forse sempre così o no
che si portavano i capelli lunghi e le barbe
i blue-jeans scampanati o a tubo schiariti
con la carta vetrata e si diceva ok batti un cinque
ogni tempo ha le sue mutazioni e alla occupazione
della cattolica c'erano belle ragazze borghesi
qualunquiste in jeans  che poi avrebbero imparato
anche loro a dire cazzo e qualche inconsapevole
bestemmia alla buona che lo facevano tutti

eppure questa mia città grigia che non ho mai amato
si è colmata di espressioni anglofone e i negozi
vantano nomi per me esotici e comunque molto brutti
i maschi anche giovani rimediano la calvizie incipiente
ostentando crani lucidi con grinta e un orecchino magari
fumando si fa per dire vapore aromatico
e non ripeto per pudore i termini rubati da altri idiomi
che tutti hanno in bocca ricorrenti e vuoti di significato

e non dirmi che è solo nostalgia di anni passati
nuovi nomi appioppati a luoghi impropri
che ne soffrono dentro nell'anima mortificati
gergalità ricorrenti banalizzano e snaturano
l'esistente con suoni malati così per il gusto
di dar apparenza di nuovo a qualcosa che c'è
e ti trovi così più straniero dei migranti
in questa brutta terra nebbiosa che pure conoscevi

qualcuno magari frattanto l'ha pensato
di provare a muovere passi sui tegoli
delle mansarde agli ultimi piani
e sporgersi a provare l'ebbrezza
e lo sconforto spaventevole del volo nel vuoto
come si fa nei sogni che tanto là poi ti risvegli
e qui sarebbe un azzardo senza ritorno
che forse scappare volando o restare
non fa differenza

e ti contenti di muovere passi lunghi
e non camminare incurvato
come lei ti dice sempre
misurando le strade inutilmente
tra inutili targhe di negozi troppo nuovi
tra vuoti sguardi che ostentano certezze
scialbe fragili inconsistenti fasulle
è fredda l'aria di febbraio e lo era anche
in quel tempo remoto con quegli altri odori
colori vetrine addobbi fogge di abiti
e parole diverse dimenticate e dismesse

così va il tempo

SCRITTURE

SCRITTURE

il ragazzo che era stato
nascondeva i suoi grafemi
vergati con matite spuntate
o stilografiche rattoppate
che facevano nere le mani
in foglietti minuscoli e quadernini segreti
col batticuore a stento frenato
ma era un altro tempo quello

ora volano sulla bacheca dell'etere
e stanno lì ad aspettare che qualcuno li raccolga
gli dia vita e fiato facendoli esistere
zoppicando talvolta cercano
di raggiungere accorati
privilegiati destinatari di cuore
e rischiano brutto ogni volta
di non essere raccolti
come i suoni leggeri di ionesco
che volano alto di speranza
per non cadere nelle orecchie dei sordi
che sono vere tombe di sonorità

una brezza leggera talvolta
li sospinge verso mete inaudite
insperate per caso e avventura
così e tremano quali pavonie incerte
in equilibrio su se stessi
e su ali di colibrì fiduciosi
che forse è proprio questo
il destino dei messaggi
perdersi nella nebbia
oppure anche raggiungere la meta
o venire raccolti da chi
inconsapevole aspettava
parole in regalo ed emozioni
gratuite e inattese

e continua ostinato il ragazzo che è rimasto
a lanciare i suoi crittogrammi
come sos d'amore e di vita
fin che pulsa dentro la vita
finché il fiato fibrilla nel cuore
con la sua logorrea verbale
perché ha tante cose ancora da dire
o lo crede o lo pensa ma è lo stesso
e racconta verseggia balbetta
borbotta talvolta con voce roca
instancabile inconsulto frenetico

ascolta
e leggi
se vuoi
se ti va però
se ne vuoi trovare tempo
la canzone infinita del suo fiume
prima che arrivi lo scroscio finale
annunciato previsto cupo
e il contatto interrompa

con un tilt

il flusso

a cascata

e sia

stop

lunedì 5 febbraio 2018

LA MAESTRA CARLETTI










Fino ad allora avevo conosciuto solo piccole scuole elementari di paese. Essendo comunista e della Cgil non ero mai riuscito nonostante le ripetute domande fatte a essere inserito nelle prime scuole a tempo pieno che nascevano a Novara. Mi ero perciò risolto a trasferirmi dove capitava. La scuola non avevA una gran fama di modernità o di esperienze avanzate. io avevo sempre insegnato seguendo le indicazioni del movimento di cooperazione educativa. La lingua italiana le usavamo per fare i testi liberi, che venivano sottoposti all'analisi critica di tutta la classe. E per quello scelto come più significativo facevamo la messa a punto. Che consisteva nello scriverlo alla lavagna e sottoporlo a modifiche aggiustamenti correzioni ortografiche linguistiche semantiche. Il nuovo testo veniva poi battuto a macchina da me con l'aiuto dei ragazzi sulle "matrici", per essere poi stampato al ciclostile, o in alternativa con il piccolo Limografo a mano che avevo comperato io. Quando avevamo un certo numero di testi pronti stampavano il giornalino. Una pubblicazione di qualche decina di pagine. Sui disegni già stampati in matrice, gli alunni e squadra o singolarmente raggiungevano la coloritura. Veniva pinzato. E poi lo si vendeva. Genitori, zii, nonni, vicini di casa con i soldini che ci davano, permettevano l'acquisto di nuove matrici, dell'inchiostro, e dei foglioni di carta da pacchi bianca sulla quale i ragazzi e le ragazze dipingevano immensi disegni favolosi con le tempere murali a colori sempre comprate con la nostra cassa. La quale veniva gestita facendo matematica e aritmetica pratica dagli alunni in piccole squadre di contabili. Avevo comperato anche innumerevoli schedari di autocorrezione ortografiche sintattica, di aritmetica, di storia e antropologia. Tutta la classe nello spirito metodologico adottato diventava proprio una "cooperativa". Il maestro era il regista, il superesperto, l'amico grande delle bambine e dei bambini. Facevamo musica usando la mia chitarra. E spesso costruendo strumenti artigianali con vecchi scatoloni di cartone rigido dei detersivi, bastone di scope per manico, fili di nylon… Tamburi, chitarroni, e altri strumenti a percussione con sassolini e semi vari… Le esecuzioni le registravo insieme a loro e le ascoltavamo spesso ci raggiungevamo anche delle parole facendole diventare delle canzoni. Le scienze biologiche chimiche e fisiche le studiavamo tenendo animali in classe, nutrendoli accudendoli e facendo crescere pianticelle di cui registravano gli sviluppi facendo continue osservazioni.
La scuola dove mi trasferivo in periferia di Novara veniva chiamata Rizzottaglia. Da un vecchio nome di allattare ormai applicato al quartiere e stabilmente ad una via che lo attraversava.
Mi trovai abbastanza spaesato con tutti quei colleghi e colleghe. Pochi gli uomini come sempre. Uno lo ricordo era un idiota che aveva comperato una laurea al sud. Non sapeva fare un tubo, e spesso durante le ore di lezione affidava la classe alla bidella o al capoclasse e andava per i fatti suoi a fare la spesa.
Era abbastanza difficile starmene chiuso nella mia aula a rifare il percorso che avevo fatto finora. Dopo gli anni numerosi che avevo avuto nelle scuole medie o nelle scuole superiori.
Nell'intervallo a turno ci trovavamo in una specie di auletta insegnanti, a bere il caffè. Confesso che colleghi e colleghe non mi piacevano per niente.
In particolare avevo abbastanza soggezione di una maestra che era certamente la decana della scuola. Alta, diritta, asciutta, abbastanza segaligna. Le rare volte che l'aveva incontrata non l'avevo mai viste sorridere.
Trascorsi  due anni in quell'ambiente.
Nel frattempo avevo preparato il concorso direttivo. E probabilmente avevo offerto io il caffè e i pasticcini quando avevo avuto la notizia della vincita.
Fu  probabilmente in quell'occasione che la decana della scuola mi sorprese.
La chiamavamo maestra Carletti. Chi era più in confidenza la chiamava Tina. Non  era la maestra fiduciaria o responsabile della scuola. Ma era comunque un punto di riferimento. Tutti la stimavano. Io non la conoscevo quasi per niente.
Mi avvicino durante il rinfresco. Sapevo che era cattolica e credente. E sapevo anche che era una maestra di vecchia maniera per quanto molto stimata professionalmente.
Mi apostrofò così più o meno:
"Sapevo e  immaginavo che tu Nanni avresti vinto il concorso. Non ho mai visto il tuo modo di insegnare ma da quello che i colleghi e le colleghe mi dicono fai delle cose meravigliose. Io insegno alla vecchia maniera. L'unico modo che conosco. Probabilmente la pensiamo anche in modo diverso rispetto al mondo alla fede e ad altre cose.
Se ne fossi capace vorrei tanto fa scuola come la fai tu. Sono contenta che tu per questi due anni sia stato qui con noi. Una ventata di modernità e di rinnovamento scolastico. Io ormai sono abbastanza vecchia e fra un po' andro in pensione. Mi auguro che i colleghi imparino da te. Rappresentiamo due mondi diversi. Sono contenta di aver incontrato il tuo mondo, stravagante, trasgressivo, giovane e vivace. Ti auguro di trovarti bene con il suo nuovo lavoro. Complimenti!"
Non potei fare a meno di restare turbato piacevolmente e di abbracciare quella persona.
Al di sotto della sua maschera rude severa austera, del suo mondo cattolico e conformista, aveva fatto un grosso passo per uscirne fuori, accostandosi alla mia realtà, scandalosa probabilmente per lei, dicendo che mi stimava, e dicendomi che anche nella diversità ci può essere affetto e stima.
La maestra Carletti aveva anche spesso fuori dalla porta della scuola sotto il porticato la figliola che la stava aspettando.
Era un piccolo angelo dagli occhi luminosi fosforeggianti. Poco più che adolescente. Lanciava sguardi affascinanti. Le rare volte che l'aveva incontrata lì, ne ero rimasto decisamente affascinato.
una volta ricordo che mentre terminate le mie ore di lezione toglievo il lucchetto della vecchia bicicletta metallica dei freni a bacchetta, per tornarmene a casa, intravidi il piccolo diabolico adolescenziale angelo. Non abbassava mai lo sguardo quando mi vedeva. Anzi mi provocava con sguardi luminosi in cui galleggiava un sorriso intenzionale anche se sfumato. Mi tremava l'anima e il cuore.dopo avere diverse volte ricambiato gli sguardi con altrettante intenzionalità, una volta non riuscì a trattenere mie le dissi: "CHE BELLA COSA CHE SEI"… Mentre lo dicevo provavo un profondo turbamento che immagino l'abbia provato anche lei.
In altri contesti l'avevo poi rincontrata. Una volta era anche venuta nella mia casetta di scapolo a trovarmi. Ricordo anche che l'avevo baciata. Spaventandola. E facendola scappare e non rivedere mai più.
Uno  dei rovesci della medaglia della maestra Carletti, o Frangipane come davvero si chiamava, era questa bambina adolescente deliziosa che mi faceva venire il batticuore. Allora non sapevo che poi l'avrei rincontrata … E che cosa ne sarebbe nato…
Ma questa è un'altra storia.