CON LO SCOOTER
Ed
era stato un gioco estremamente piacevole. Festeggiare la rimessa in piena
efficienza su strada del mio mezzo a due ruote. Il casco nuovo aveva la parte
anteriore sollevabile sopra la fronte. Per cui non c'era più quella tortura del
caldo soffocante anche sul volto. La temperatura era elevatissima ma non era
per nessuno una novità. In Svezia giorni prima erano riusciti a fare il bagno
in costume, come ricordavano di aver fatto solo da noi nel Mediterraneo. I
ghiacci dei poli e quelli dei ghiacciai andavano sempre di più assottigliandosi
e liquefacendosi. Ma non andavo a fare un giro di ricognizione metereologica.
Una
borraccia termica da campeggio conteneva dell'acqua tonica ghiacciata. Che poi
avrei preferito decisamente sostituire con l'acqua fresca di neve.. Preferendola.
Un vecchio zaino in cuoio un po' consunto stava agganciato davanti alle mie
gambe sullo scudo. Il navigatore faceva bella mostra di sé sul parabrezza. E la
voce sintetica ricordava quando bisognava girare a destra, a sinistra, e fra quanti metri…
Anche
se la voce stentava a farsi sentire per via del casco che mi copriva le
orecchie. A dir la verità non sembrava neanche facesse caldo. Avevo cominciato
ad andare. E andare. E andare… Il
telecomando Telepass nel taschino della camicia, in autostrada faceva alzare la
sbarra appena arrivavo. Insomma ovvie banalità, ma eccezionali per questa prima
occasione in cui inauguravo e insieme festeggiavo.
Forse
le cose, i fatti e gli avvenimenti più che essere belli, straordinari, in sé e
per sé, lo sono o lo diventano a seconda di quello che noi regaliamo loro
investendoli di significato.
L'avevo
fatto fino a qualche anno prima. Con il vecchio scooter al quale avevo
applicato l'impianto gpl. Perché ormai era diventato incompatibile per la
circolazione; e solo così potevo ancora girare. L'apparecchiatura proveniva da
un paese dell'est europeo. La tecnologia lasciava molto a desiderare. Dopo aver
fatto un po' di kilometri spesso perdeva colpi il motore. Bisognava fermarsi.
Spegnere e poi riaccendere e ripartire. Raggiungeva i 120 km/h e anche di più.
Ma le continue soste rallentavano la tabella di marcia. Ora con il mio nuovo
compagno di viaggio a due ruote, mi contentavo di velocità più modeste. Tra gli
80 e 90 orari, con punte addirittura oltre 100… Ma in quest'ultimo caso volevo
illudermi : probabilmente mi trovavo in discese autostradali. Ma era tutto quello
che ci stava dentro e dietro che dava sapore e significato rituale. Qualche
anno fa come pure ieri… Uscito dall'autostrada imboccavo la superstrada da
Gravellona Toce. E dopo poco i primi cartelli indicavano l'uscita per
Ornavasso, poi Candoglia, Mergozzo… E più che cartelli stradali indicatori
erano pezzetti di ricordi vivi da riscoprire e rivisitare.
La
casa di Ornavasso, a mezza costa, sulla strada che portava al santuario della
Madonna del Boden; in faccia alla parrocchiale di San Nicola. Ricordo che le
campane suonavano le ore, le mezz'ore e anche i quarti d'ora… I primi tempi si
faceva fatica a farci l'abitudine, specie di notte. La chiesa e il campanile di
marmo e granito a macchie brune, l'avevo vista migliaia di volte affacciandomi
alle finestre o dal terrazzino… O dal terrazzone lastricato. Ricolmo di lussureggianti
alloro. Arbusti di rosa canina. E qualche palmizio. Da questo grosso terrazzo
dei gradini portavano giù al cancelletto. Di ferro vecchio. Cigolante. Che però
diventava un'ottima altalena per andarci avanti e indietro.
Da
quei gradini la salita all'ampio cortile lastricato posteriore. Ricolmo d'uva
americana che nessuno curava più per cui i grappoli spesso rinsecchivano per la
filossera.
Gli
acini buoni erano dolcissimi più delle caramelle. Le piccole meline della rosa
canina, non bisognava assolutamente mangiarle. Contenevano dei lunghi filamenti
che potevano dare grossi pruriti prima dell'evacuazione. Lo chiamavamo "gratacù"
proprio per questo prurito all'ano. Ma nonna Emma sapeva raccogliere le e con
le sue mani sapienti e magiche le faceva diventare una leccornia. Trasformando
le in marmellata. Con tutto la nonna sapeva fare marmellate. Anche coi petali
di rosa.Con le sue mani un po' deformate dall'artrosi, ma magiche. Si curava
con prodotti naturali, canfora e altre pomate che avevano col profondo intenso
odore di mugolio e simili. Una volta dopo la morte del babbo avevano rinvenuto
in cantina due damigiane di vino di Ghemme. Una più piccola, l'altra più grande,
erano passati molti anni per cui si erano inaciditi quei vini prelibati. Con
pastiglie di china, il medicinale magico panacea contro tutti i malanni, lei lo
aveva trasformato in un nettare divino chinato. Aggiungendo dello zucchero.
Ci
ero ripassato a rivedere la casa di fronte a San Nicola. Da quando era stata
venduta aveva perso quell'aspetto demodé … Di un villino austero di fine
ottocento. Intonacato. Ma con le finestre piccole come si usavano in montagna
per avere meno dispersione termica. E il tetto di pesanti lastre di beola
sorrette da travi di rovere.
L'acquirente
aveva importato con la violenza e il cattivo gusto che aveva nel suo DNA, lo
stile delle case colorite del Varesotto.
Ci ero passato una volta… Ero scappato subito. E per molte ore, anzi per molti
giorni, anzi ancora adesso soffro la ferita di quella visione… A maggior
ragione perché i lavori erano ancora in corso… Ferite aperte, non ancora
cicatrizzate…
Poi
continuando lo scooter mi faceva guardare l'acqua densa grigio verde della Toce. Nome di fiume femminile nella
toponomastica locale. Tinta così dalle polveri e dai sedimenti di micascisti .
In
alto sopra Candoglia i buchi nella parete montuosa delle cave del marmo del
Duomo di Milano. Dalla superstrada non si vedeva ma sapevo che appena dietro le
fronde c'era la scuola media annessa all'Istituto tecnico per marmisti. Dove
avevo cominciato il mio percorso di pseudo professore. La passerella una volta
fatta solo di cavi d'acciaio grugniti semiruggini, era stata rinnovata forse
addirittura in muratura. Ma dovevo andare oltre. La piana di Pieve Vergonte
arrossata dalle polveri tossiche della Rumianca. Le polveri che avevano ucciso
lentamente il mio vecchio amico compagno Oreste Torriani. Inviso alla direzione
della fabbrica. Come pure al suo stesso sindacato di cui era stato e continuava
a essere il leader indiscusso. E anche dal partito per il quale aveva
combattuto da partigiano.
Oltre
al compagno Oreste pensai al mio exalunno di quando ci aveva insegnato lì,
Valerio! Anche lui ormai passato in un'altra dimensione. Si era sparato un
colpo al cuore insoddisfatto della situazione politica, culturale e umana…
Ma
erano ricordi solo di sfuggita. Qualche sosta ogni tanto per una fotografia
scattata col tablet. L'afa creava una patina di foschia sulle sagome dei monti.
In mezzo al verde, le sempre più rare abitazioni col tetto di beola, avevano
finito per lasciare il posto, come era avvenuto nella casa della mia infanzia
di Ornavasso, a informi costruzioni brutte omologate seriali…
Ma
avanti. Non c'è tempo per la nostalgia. Non c'è tempo per fermarci, piangersi
addosso, un sorriso, un pensiero dolce affettuoso, e via…
Imboccando
poi la valle Antigorio, la nuova galleria di 7 km, gelida, freschissima… Come i
vagoni con aria condizionata sui treni dei giorni scorsi per Milano. Aveva
preso il posto di quel percorso a tornanti continui che avevo con estrema
difficoltà transitato, prima con l'auto e la roulotte al traino, e poi con il
camper. A Baceno, con una stretta al cuore, avevo girato a destra per Premia.
Ma qualche volta ci tornerò a fare quell'ultimo tratto della valle antigorio
che porta a Croveo, a Goglio fino alla strada da percorrere a piedi per il
Devero.
La
cattedrale romanica di San Gaudenzio a Baceno, sorella gemella di San Nicola di
Ornavasso.
Un'occhiata
veloce di sfuggita al vallone tenebroso dantesco degli Orridi di Uriezzo.
Le
terme di Premia, che mi avevano detto portare le stesse acque provenienti dalla
Svizzera Leukerbad.
Ma
non c'è tempo per fermarsi. Ora almeno. Il mio viaggio di corsa continua.
Ricompaiono
le abitazioni con i tetti di beola. Uno strano incongruo rasquart sollevato sui
funghi di pietra come in Val d'Aosta.
E le
scritte della toponomastica che mescolano la nostra lingua all'idioma vallese .
E
infine… Vista da sotto, la Cascata del Toce. Qui il nome del fiume
conformisticamente torna ad essere maschile. Il verde. Tanto verde. Un odore di
verde intenso. Addirittura un "odore verde".
Quell'odore
e quella frescura immensa che avevo descritto anni prima in una poesia in cui
ricordavo la corriera con i suoi clacson multizonali, quando andavo con la zia
e i miei fratelli su da lei a Croveo. Una poesia in cui giocavo al confronto
per contrasto con le corriere simili che avevo trovato molto tempo dopo girando
le isole greche.
I
rigagnoli della cascata. Sulla massa rocciosa. In una foto da adolescente,
ancora senza barba, con gli occhiali, i capelli con un ciuffo vistoso alla
James Dean, stavo appoggiato alla ringhiera. Me l'aveva scattata zia Luisa. Che
era stato per molti anni la "Signora maestra" di Croveo. Conosceva
molto bene quell'uomo asciutto, brusco e segaligno che era il parroco Don Ruscetta.
Il prete scienziato viperaro. Insegnava a tutti come dotarsi di un rametto
biforcuto in fondo, col quale immobilizzare le vipere, dopo averle
riconosciute. E averle portate a lui. Che le faceva morsicare su un piccolo
contenitore sul quale aveva posto una membrana forse di carta oleata.
Raccoglieva i veleni e periodicamente li portava all'Istituto sieroterapico di
Milano. Le sue messe erano messe da corsa. Duravano 10 o 12 minuti in tutto.
Diverse volte se sentiva brusio, o qualche bambino in braccio le madri che
strillava, interrompeva la funzione. E invitava a non disturbare uscendo sul
sagrato.
Con
la zia ero stato una volta nella sua sagrestia. In grossi bidoni alla buona
grovigli di serpi e serpenti. Col veleno raccolto veniva prodotto l'antidoto
per i malcapitati che venivano avvelenati dalle vipere. Delle quali non
bisognava aver paura. Inutile mostrare panico. Le si sarebbe spaventate
ulteriormente. E allora: zac! Per difendersi avrebbero estratto i loro denti a
sciabola iniettando il loro liquido mortale.
Ho
ancora in una mia vetrinetta tra quegli
oggetti antichi sopravvissuti a tanti traslochi e
a
tante devastazioni di sgradevoli ospiti che ho avuto negli anni, un piccolo
contenitore di bachelite marrone. Un rimedio che il prete viperaro, guaritore
mago, aveva preparato: il mulasso. A base di nocciolo. Un portentoso rimedio
per ricostruire tessuti malati. Come aveva fatto quando una madre sprovveduta
aveva creduto di disinfettare una piccola ferita a un dito al proprio bambino,
col disinfettante invoca allora: l'acido fenico. E per colmo della sorte di
lasciarglielo avvolto sul dito tutta la notte. Il mattino il dito era
scheletrico. Ma ci aveva pensato Don Ruscetta.
Qualche
notte, dei ragazzi lì in vacanza da parenti si erano infilati su per la
scaletta del campanile, suonando sulla tastiera "avanti popolo". Una
bravata sciocca. Un rapido cenno nella messa del giorno dopo, con aria brusca e
decisamente incazzata.
Nel
seicento a Croveo c'era stata l'inquisizione locale, per gli ultimi processi
alle streghe con esecuzione.
Nella
notte del giorno dei morti era usanza, ancora negli anni 50 e 60, mettere sul
davanzale della finestra una tazza d'acqua e qualche boccone di pane. E molti
locali erano convinti di avere poi visto sul pavimento il giorno dopo gocce d'acqua.
Non
posso dilungarmi oltre, perché la cascata mi sta aspettando. Con le sue fontane
di acqua gelata di neve. Meriterebbe un lungo discorso la parlata e il dialetto
del posto che mi facevano tanto ridere di gusto e mi piaceva tantissimo.
Boh.
Tutto qui. Il mio scooter viaggiava spedito. Ronzando. Le fontane sgorgavano
acqua. La mia arsura poteva esserne momentaneamente piacevolmente appagata.
Almeno fino alla prossima volta.
E
anche la prossima volta mi fermerò a quello che una volta si chiamava bar sport
a Premia. Che ero stato con la mia bambina piccolissima che dormiva nel
passeggino e beveva golosa del suo biberon il latte. Mentre io mi buttavo sui
cibi deliziosi che cucinavano.
E che
ancora ho assaggiato proprio ieri. Ma tanto sapevo che avrei bevuto
quell'ottima acqua ghiacciata delle fontane del passo della Frua. Che invece di
farmi venire una congestione ogni volta mi aiutava in una digestione splendida.
Ci
ero stato ancora al bar sport come si chiamava allora l'ultima volta che la mia
anziana madre si era lasciata convincere a venire a fare una gita. Era quasi
novantenne. Da vecchia artista cantante lirica alla scala, portava sempre i capelli
tinti di enné con un buffo colorito rosa. Buongustaia e golosa come me, per
pudore diceva che non aveva affatto appetito. E poi con gli occhi che
luccicavano di piacere, seguiva il mio esempio sui cibi deliziosi. Chiedendo
ogni tanto con uno sguardo un altro buon bicchiere di vino. Lei non beveva
l'acqua gelata per digerire… Un viaggio con lo scooter. Apparentemente in una
valle lontana 147 km dalla mia afosa, umida e puzzolente di risaie città che si
chiama Novara. Ma in effetti, il mio scooter mi aveva nuovamente aiutato a
ripercorrere un viaggio a ritroso nel tempo. Nel mio tempo. Ognuno di noi a suo
tempo che gli è caro, gradito, e al quale vuole tornare ogni tanto con ricordo.
Nostalgico. Che un termine stupendo mi permette di chiamare più che nostalgia:
"saudade".
Le
numerose foto partivano seduta stante per la destinataria che virtualmente era
venuto il viaggio con me, e ora, per quanto scattate senza una vera macchina
fotografica, le colloco qui sotto. A commento. Ma io ho sempre pensato, e lo
penso ancora, che le foto più belle sono quelle che ci portiamo dentro. Solo
qualche volta cerchiamo di bloccarne l'immagine. Ma la più bella è un'immagine
mentale.
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