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domenica 3 novembre 2019

UNA CASA DI VETRO

UNA CASA DI VETRO
Si era subito diretto verso la cucina. Caricato il caffè nella cucchiaia della macchina la schiuma dorata e bruna si mescolava al miele della tazzina.
Aleggiava intanto ancora, intorno, l'ultima sequenza vivida del film onirico.
Cercò di afferrarne i frammenti. Mentre la visione d'insieme si disperdeva nella nebbia.
Il se stesso muoversi tra gli spazi chiari e trasparenti. I locali ampi di luce aperta e libera. Oltre i quali altri spazi e altri ancora.
E anche guardando in alto di nuovo la proliferazione di locali puliti, aperti, trasparenti. Il sogno ricorrente era tornato.
Nelle prime versioni un girovagare nell'ampio solaio della casa avita. Nel sottotetto af un solo spiovente. Dall'altro lato le abitazioni circostanti, i grattacieli, i ciuffi verdi dei viali alberati. Le colonne di muro con la superficie che si sbriciolava al tatto spolverando intorno la sabbia giallo ocra del torrente Arbogna. Che ancora scorreva sotto i selciati della carrareccia di sassi. Così aveva letto da qualche parte. Tra un pilone di muro e l'altro a due diverse altezze dei pali grezzi di legno nodoso e consunto. Non c'era da appoggiarsi. Erano assolutamente instabili. E sotto il ballatoio di lastre di serizzo, con i suoi montanti di ferro battuto arrugginito e consunto. Avviticchiati di pampini di uva americana e di clinto. E l'odore aspro delle foglie rugose dei due immensi fichi. Si regalavano frutti dolcissimi viola scuro e verdi.
Sotto il tetto di vecchi tegoli, sorretto dalle travature immense grezze e tarlate di quercia antichissima, niente e tutto.
Il mucchio dei ciocchi di legna per la stufa.
La montagna disordinata del carbone.
Gli ovuli e le mattonelle per conservare il fuoco la notte.
Vecchie cassapanche sconnesse e scardinate. Da frugarci dentro. Vecchi fogli. Rotoli di carta translucida con i progetti dell'ingegnere. Con la grafia minuta, precisa e risoluta del babbo.
Vecchi giocattoli arrugginiti. Forse la piccola torpedo di compensato rosso con la quale si era andati in America da bambini avanti indietro sul ballatoio. Sacchi di abiti dismessi. Capellucci tarlati. Una scarpa scompagnata dall'altra.
C'era andato spesso a frugare lì sopra.
E poi, immancabilmente, ripetutamente ci era tornato nella dimensione onirica.
E gli spazi si moltiplicavano. Qualcosa ancora più in là. E ancora ancora. Ampi locali di ombra. A volte su piani sovrapposti. Si sarebbe potuto vivere in quei locali immensi, tiepidi, moltiplicate all'infinito… Come tende pendevano dai travi lenzuoli di cellophane che ballavano all'aria.
Una polvere grigia, finissima, soffusa e diffusa dovunque. Sia nel sogno che nel solaio reale.
Passare da un locale all'altro, a volte facendo delle capriole su se stessi, tuffandocisi a nuoto. Come avviene in quella dimensione. Ricordo ancestrale forse del passaggio dal liquido amniotico alla luce del giorno con la nascita.
E più di recente, anziché il proliferare di spazi di ombra nel sottotetto solaio, il sorgere a livello terreno, di immensi gazebo/verande.
Pareti di policarbonato. Come vetro ma più inconsistente, leggero come un velo… E anche qui ampi locali vuoti di oggetti, ma colmi di luce e di aria. Colmi di trasparenza. E dietro questi , altri ancora, e ancora altri e altri e altri. E alzando lo sguardo i piani sovrastanti, simili, aperti, vergini…
Nella vecchia casa avita, faticosamente e in equilibrio precario aveva costruito tra una cameretta aggettante sul giardino e il vano scale che conduceva alla cantina, una veranda. A pannelli di policarbonato su agili e snelli telai di legno di balsa. Anche in alto a mò di soffitto. Sopra il quale aveva collocato un ondulato trasparente. Che nel giro degli anni il sole avrebbe fatto diventare giallo verde.
Delle travi massicce appese ai lati delle pareti in alto reggevano qualche libro, e qualche piantina. Verso il giardino per prendere più sole possibile il ficus beniamina che da quegli anni sarebbe poi diventato immenso.
Un tavolo di ferro battuto e vimini verde con quattro sedie. Lui ci andava a fumare la pipa per non ammorbare in casa.
Erano forse quelli gli archetipi mentali da cui produceva poi il suo materiale onirico per continue superfetazioni?
Negli anni successivi aveva comperato un piccolo alloggio in Liguria. Arrampicato su una scarpata rivolta al mare e al sole. Disponeva di un ampio terrazzo giardino in mezzo al verde. E anche lì aveva voluto costruirci una veranda gazebo. Aveva utilizzato dei materiali di legno di precedenti costruzioni proprie. Ma il lavoro era comunque immenso. L'aveva aiutato Pinuccio portando tutta la sua attrezzatura da bricolage. Intanto Giangi oltre a collaborare molto attivamente preparava pranzetti deliziosi.
Anche lì, alla fine, era sorta una struttura trasparente di policarbonato. Il pavimento era sollevato da terra per evitare gli insetti su un impiancito di assi. Ci aveva collocato una cucina, con forno piccolo frigorifero lavello… Un'altra dimensione aerea e trasparente.
Coazione a ripetere.
E nell'attività onirica notturna di lavoro continuava all'infinito.
Quel mattino, mentre beveva il caffè denso dalla schiuma dorata, percorreva ancora, prima che svanissero del tutto, quegli ampi locali di luce trasparente.
Anni prima, nel suo frugare nel Web aveva trovato un modello mentale archetipo di queste sue costruzioni che poi il suo sogno rielaborava.
Era reale. Collocato in mezzo al verde. Senza segni di presenze umane o di abitazioni. Un immenso gazebo a cupole di ferro battuto verniciato di verde, tutto a vetrate.
L'aveva spesso pubblicata nella piattaforma Web che frequentava. A richiesta non aveva saputo dire a che località si riferisse. Per lui era meglio così. Perché quello era un luogo dell'anima. Un luogo della mente.
Come quelli che aveva visitato all'isola bella. Sul Verbano. O che aveva visto a Parigi, tipo l'orto botanico o altre strutture Art Nouveau. Come i Trianon, il Musèe d’Orsay…

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