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martedì 18 ottobre 2016

L'AMORE DELLE TRE MELAGRANE-15

L'AMORE DELLE TRE MELAGRANE-15
Nanni- posso darti il buongiorno, mia alba luminosa?
Artemisia- Ciaooooo… Mi è arrivato insieme allo squillo della sveglia il tuo messaggio con la foto rosata che tinge le nuvole sparse sullo sfondo! Che bello uscire dalla penombra del sonno, e incontrare ancora sempre te, mio sole!
Nanni- Sai, sono molto mattiniero sempre… E poi sto qui a calcolare i minuti, i secondi, gli attimi, e preparo qualche immagine verbale e fotografica…
Hai riposato bene mia dolcezza? E allora prenditi subito un bacio morbido sugli zigomi e poi lo facciamo scivolare sulle labbra.
Dopo ti lascio andare ai tuoi impegni. Ma ti anticipo subito che ho buttato giù dei brani delle cose che ti raccontavo altre volte… Ti arriveranno , le leggerai con calma dopo… Sono i soliti viaggi a ritroso nel tempo, nel mio tempo lontano e vicino, il mio solito peregrinare avanti e indietro… Buona giornata allora e che lo sappia anche lei, la giornata, che tu sei il gioiello che la impreziosisce…
A FUMARE
Avevano cominciato prestissimo, sul ballatoio della vecchia casa che si affacciava su quel mare di pampini carichi di grappoli d'uva americana. Che ti si scioglieva in bocca e lasciava le labbra allappate, che dovevi continuare a leccarti le labbra per togliere quel piacevole e insieme fastidioso prurito.
Alcuni tralci d'uva clinto si intrecciavano con gli altri, in un viluppo che sotto faceva addirittura ombra. Accanto al terrazzino si buttavano in alto i due fusti contorti del fico.
Bisognava scavalcare la ringhiera arrugginita, e poi la scaletta era pericolante, e bisognava lasciarsi calare giù a forza di braccia. Un metro e mezzo, neanche due. Ed era una bella ginnastica. Si gonfiavano i bicipiti e ci sentivamo Johan Weismuller, il Tarzan che sgridava le bestie feroci in bianco e nero nella nostra giungla infantile.
E scendere nel nostro paradiso verde proibito e segreto, era un'impresa magica. Nell'odore intenso delle foglie di fico che graffiavano dolcemente la pelle. A riempirci la bocca di acini succosi nei grappoli risparmiati dalla filossera. Il succo dolce aromatico ci colava dalle labbra e alla fine avevamo delle maschere violacee intorno alla bocca.
Ma il ballatoio ci serviva anche per i nostri giochi.
Ci era rimasta una automobilina rossa di legno compensato, col muso piatto come le auto vere degli anni 30 e 40. Era stata del nostro fratellino maggiore scomparso prima che arrivassimo noi . Ci si stava solo uno alla volta dentro seduti. I pedali, ormai arrugginiti e mai sistemati da nessuno, dopo la morte del babbo, non ne volevano sapere di mettersi a funzionare. E allora si andava avanti con i piedi appoggiati sul fondo di serizzo. E spingevamo con i nostri sandaletti facendo con la bocca il verso del motore.
A turno, ogni tanto, uno di noi fratelli spingeva l'altro.
Ma quello era il meno. Molto spesso giocavamo a fare gli americani.
Non era difficile inventare quella lingua magica. Incomprensibile tra noi, ma solo intuitiva. Qualche volta nascevano in quell'idioma inventato battibecchi ad alta voce, e quando uno di noi nel tono dell'altro rilevava o credeva di riconoscere un tono di offesa o di scherno, volavano botte.
Non avevo ancora cinque anni. Lui due più di me. Una volta ricordo che mi ero talmente offeso che gli ho dato una pacca con la mano sul capo. Lui stava ridendo con la bocca spalancata e la lingua fuori. Dovettero portarlo al pronto soccorso e fargli dare dei punti mentre lui strillava come un disperato.
Quando eravamo già un po' più grandi, in uno dei ritorni luminosi alla nostra casa adorata dall'Istituto, avevamo deciso che gli americani non si limitano a parlare americano ma fumano continuamente sigarette.
Le vendevano anche sfuse. In piccolissimi sacchettini bustine poco più grandi di quelle attuali dello zucchero. Quelle in cui ci mettevano dentro i francobolli e le marche da bollo. E le vendevano in tabaccheria anche a noi bambini. "due africa", oppure "tre aurora"…
E poi ce le fumavamo sul ballatoio. Più che altro le accendevavamo usando gli zolfanelli di allora da cucina, che all'inizio bruciavano lo zolfo con la loro fiammelina microscopica azzurra, dall'odore acre e pungente. Ci avevano spiegato forse che il fumo andava tirato in bocca e respirato. Qualche volta ci era venuto da vomitare.
Ma per fare gli americani, qualche sacrificio bisognava pur correrlo.
Ricordo le sigarette aurora con un vago odore di erba e di fieno. Leggermente aromatico. Le africa invece erano davvero bestiali. Amare, forti, acri e pungenti… Residuo del nome coloniale rimasto dal fascismo appena abbattuto.
Tante volte mi è tornato il gusto di potere giocare di nuovo a fare gli americani, con la nostra sigaretta tra le labbra, parlando come loro, e spingendo a fatica la macchinina rossa.
Di rivivere ciò che allora per noi era reale nel gioco, che vedevamo e sentivamo ed esisteva davvero, al di la del muro sbrecciato, dei tralci e dei pampini con i loro viticci, e della ringhiera ruggine nera traballante.
Riesco soltanto ad evocare l'atmosfera, la dimensione magica, l'emozione, il perdersi diventando degli altri.
Ma poi, presto, sarebbe venuta nonna Emma a chiamarci, che era pronta la minestra di riso e prezzemolo e aglio. Ci lasciavamo lavare il muso imbrattato di mosto. Le mani. E qualche volta aiutavamo a preparare la tavola.
Ricordo con un po' di malinconia di uno scherzo che una volta avevamo voluto fare alla nonna. Lei era alta, fiera, dolcissima ma molto ferma, rassicurante ma senza sdolcinature che invece aveva con noi nostra madre. Teneva i capelli bianchi lunghissimi raccolti in una treccia che le girava intorno al capo e le faceva come una corona con le forcine di bachelite marrone.
Al posto dove si sarebbe seduta la nonna mettemmo un grosso cucchiaio una grossa forchetta e un grosso coltello di portata. Al posto delle posate normali.
Quando anche lei venne con la zuppiera di minestra profumata, si mise al suo posto, fece un mezzo sorriso e senza commentare cambiò le posate sostituendole con quelle normali.
Negli anni successivi, era diventata quasi cieca. Passava il suo tempo a letto a pregare continuamente con le persiane chiuse o accostate. Nonostante i problemi di vista continuava anche a cucire, rammendando tutto, riparando, e creando dei piccoli patchwork con gli avanzi di stoffa, per qualsiasi scopo di casa.
Una volta, per consolarla della sua solitudine di preghiere , rosario e cucito, avevo deciso di fare per lei il teatro.
Era sdraiata nella penombra della camera ch'era stata matrimoniale dei miei genitori, da un lato. Inventavo delle storie, facevo tutte le parti dei personaggi, ed ero riuscito molte volte a strapparle dei sorrisi convinti e delle risate nei suoi denti bianchi d'avorio antico.
Alla fine aveva detto, con la sua parlata milanese: "te set propi un satira… Giancarlo… te devet fa’ l’atur quan te set grand.." (= Sei proprio un comico, Giancarlo, da grande dovrai fare l'attore) Perché lei mi chiamava Giancarlo, dai miei nomi ricevuti al battesimo: Giovanni Carlo Vincenzo Cesare…
Per fortuna che il babbo prima di andarsene per sempre mi aveva appioppato quel diminutivo che mi porto ancora addosso: "Nanni"… E che fa parte della mia anima, della mia personalità, della mia essenza.
Mio fratello era diventato Cecco, da Francesco.
E allora, in quel tempo Nanni e Cecco, facevano molto bene gli americani, parlando straniero e fumando sul loro ballatoio pieno di verde e di vespe ronzanti che andavano a succhiare le gocce dai chicchi d'uva. Inebriati da quell'odore d'infanzia e dal profumo intenso di foglie di fico che prendeva piacevolmente alla gola.
Mentre lui raccontava, seduto sul divano rosso di pelle, lei stava sdraiata con le ginocchia alzate e poggiava il capo in grembo a lui. E lo guardava di sotto in su con lo sguardo rovesciato. Ogni tanto gli sfiorava la mano, il braccio o gli passava le dita morbide sulla guancia e sulla barba.
Le aveva lasciato gustare qualche istante un minuto di silenzio di cui lei era ghiotta.
Poi era stato lo sguardo intenso e azzurro di lei a frugare i suoi occhi, amorosamente, con una richiesta tacita, appassionata.
Lui aveva chinato il capo e aveva baciato quelle labbra rovesciate al contrario, provandone un'ebbrezza nuova, inusitata.
"È stato come baciare la parte bambina e adolescente della tua anima, incontrando le tue labbra di allora, è stato emozionante…"
Lei non aveva parlato, ma gli aveva detto tante cose con gli occhi, poi l'aveva dolcemente di nuovo tirato verso di sé e si erano lasciati andare a curiosare le reciproche bocche, salive, tepore....
"Nannino, penso che ora dovremo andare un po' di là, in camera, vero? Tu dovrai dirmi qualcosa… E anch'io devo dirtene tante…"
C’era, nella stanza, una tristezza accovacciata,
che si guardava intorno languida e attònita. Stupiva
delle tracce scure dei vuoti dei quadri alle pareti,
delle suppellettili rimosse, del clima di trasloco
imminente, dell’aria precaria che tutto assume, ora..
L’androne stipato di oggetti in mostra per i rigattieri;
avevamo stipato i miei ricordi, impacchettandoli nella carta
di giornale, adagiandoli in scatoloni da richiudere
col nastro adesivo color avana. Per la partenza
imminente; una calma vuota si distendeva piena
di attese; il filo di lana si dipanava lento verso destini nuovi.
"Duecento anni fa, ricordi? lambimmo questo cortile
con sguardi che ancora ci seguono, nei sogni ricorrenti.
Dal ballatoio guardiamo ancora in giù, su quel mare
verde delle foglie del clinto e della vite americana,
sospesi nel vuoto, ogni volta, ancora, come allora,
per sempre il bambino che siamo stati.
Scendevamo per la scaletta di ferro sul terrazzino
tra i rami del fico, turbati dalle sue foglie odorose.
Sulla terrazza grande giocavamo col fango e
zia Luisa ci lasciava fare la cacca nella vasca ovale,
per concimare la terra. In casa ci regalava l’aranciata
fatta con piccoli ovoidi di gomma forati, nell’acqua.
Salimmo le scale di cemento e la casa era immensa
e splendente, con la specchiera d’oro zecchino
e fummo principi eredi al trono di Spagna.
Dalle scale scese, nel pigiama a strisce, portato a braccia,
il babbo, col sorriso triste di chi ha letto il proprio destino.
Se non ci rivedremo ci vedremo in paradiso, diceva, e non
voleva dir niente, allora, per il bambino stupito che
non capiva che gioco si stava giocando.
Come il gioco delle romanze melense di Tosti
cantate dalla mamma al piano, sotto l’immensa
specchiera dorata, con parole ovattate e garrule
bevendo il te; il bambino s’addormentava
sullo scomodo divano, nel salottino dalla tappezzeria
damascata. Secondo impero, non le posso dare di più,
dicono i mercanti che stanno per comprare il passato
a prezzo di svendita; è difficile piazzarli questi oggetti.
Le marine e il quadro di fiori finiranno in case estranee,
insieme alla principessa di Spagna; noi fuggiremo
in mansarde luminose, portando nella memoria
tutte le fotografie del passato; impacchettate
col nastro avana. Vedremo dall’alto il cielo basso di Novara
con la sua cupola che cerca di stagliarsi in alto,
alzandosi sulle punte dei piedi. Nel duemilacentodiciassette
sposeremo di nuovo Artemisia la donna luminosa
che ci ha regalato l’allegria
e per i prossimi mille anni ci racconteremo le stesse
vecchie storie, abbellite, ogni volta, di nuove sfumature.
Ma allora c'era, nella stanza, una tristezza accorata, che languiva
lamentando l’assenza della sua vera regina, Artemisia.
Vieni dunque, dolcezza estrema dei miei giorni nuovi,
ti avviluppo coi nodosi rami di fico e di clinto, rugosi
e scuri, ti porto per sempre con me, in questa notte
di attesa e di speranza; addorméntati qui,
mentre svendiamo il passato regalandoci promesse
indissolubili e carnali reciproci sigilli rossi
di ceralacca e d’amore.
Nanni OMODEO ZORINI Qfwfq
[no, purtroppo le immagini sono prese dal web, quelle autentiche e vere non riesco a cavarle fuori dal microchip che ho qui infilato tra i neuroni della memoria, me ne scuso]

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