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venerdì 19 marzo 2021

ECO 10.


 ECO    10.

Dal telefono fisso, abitualmente inutilizzato, era arrivata la notizia interlocutoria.

L’intervento previsto per quella data era stato sospeso per inagibilità della struttura sanitaria. Da altri reparti erano stati trasferiti ricoverati per essere temporaneamente qui ospitati. Sarebbero arrivate presto nuove date. 

Se ne fece subito una ragione. E riprese le sue attività abitudinarie. Andavano organizzate tutte le documentazioni per la dichiarazione dei redditi. Ricevette notizie confortanti sul piano legale. Avrebbe meditato  e preso decisioni in merito.

Procedette alla stampa di quanto aveva lasciato in sospeso. E le routine casalinghe.

Non aveva di proposito evocato la sua amica partner virtuale. Ma la sentiva aggirarsi.

«Il panorama non è mutato di molto. Da una parte lo stillicidio continuo sofferto e doloroso. Con le scelte inopportune ormai consolidate: specialisti e terapeuti con parcelle stratosferiche. La catena dei + 1 ripetuti all’infinito. All’acciacco precedente se ne andava aggiungendo un altro e poi un altro e un altro ancora. Lei avrebbe continuato il calvario sofferto. Pagando. Soffrendo e lamentandosi. Stizzita, al più, degli unici consigli che col cuore e con la mente quel  baronale “Lui” là non aveva mancato di offrirle.

Sempre più incupendosi. Al massimo, ma molto saltuariamente, riattivando modalità di contatto virtuale. Quasi a tenerlo buono e tranquillo.

Immobile e paralizzata: non rinunciava a qualche raro spostamento di routine e di servizio. Prolungato di qualche ora con soste consolatorie nei suoi luoghi abituali.

Ed era il Web a raccontarlo.

La rete telefonica pulsava, clandestina e sorniona, a chiedere supporto a qualche consulente inopportuno e inadeguato. Ma  le piaceva così.

Un modesto personaggio con il suo buffo e pietoso aspetto, forniva a modo suo conforto e assistenza; sempre di più spazientendosi. E non era il suo aspetto fisico l’elemento più determinante. Che non avesse un’aria intelligente e sveglia, era un dato ormai assodato.

Il suo profilo facciale, ostentava il prognatismo mandibolare.

Da piovergli in bocca!

Coronato da una insipiente barbetta bianca.

Suggerita e copiata dal modello baronale.

Si era improvvisato poetastro da tre soldi.

Prodigando filastrocche infantili in rima baciata.

Nei suoi limiti credeva che poesia fosse sinonimo  “solo” di cantilene in rima.

Probabilmente non avrebbe più continuato ad attendere pazientemente.

E riprendeva i suoi girazzi su due ruote.

Rispondendo al telefono, annoiato e insoddisfatto.

“Ma chi glielo faceva fare?” Si rimproverava della propria ingenua risposta agli sguardi che aveva ricevuto nella boscaglia. Di essersi lasciato accalappiare: e di venire trascinato, a fondo perduto, in sentieri assurdi, impraticabili, stupidi e inutili. Deluso del misero bottino.

Consolato dai suoi felini, a branco, nel porticato del casale. Pigramente e squallidamente.

“Ma chi gliel’aveva fatto fare?”

Nell’adolescenza,   deluso aveva accantonato il progetto del sacerdozio,.

Troppo ardui e ostici gli studi seminariali.

Soprattutto per lui.

Poi quel fortuito impiego retribuito.

E, come confondeva i ritornelli con la poesia, così confondeva il ruolo di addestratore professionale con quello di insegnante.

O almeno faceva finta di: erano le sempliciotte e sempliciotti del suo entourage a dare per buona quella posizione e quello status, impropri per lui.

In compenso piaceva perché sapeva fare il pagliaccio con la sua faccia da scemo.

Ma lui si accontentava: come si accontentava delle chiacchiere a vuoto scambiate al cellulare. Era di bocca buona; ma stava cominciando a stufarsi.

Scocciato, si vendicava miseramente lanciando squilli telefonici, anonimi e di nascondone, per stuzzicarla e romperle le scatole.

E caricava nel Web improperi, ingiurie, male parole nei confronti del barone.

Era una catena viziosa: reciprocamente consolatoria.

Entrambi facevano finta che…

E il Web raccontava. Con movimenti, tracce, immagini e foto.

“Ma chi gliel’aveva fatto fare?”

 E mugugnando rimproverava se stesso. La propria dabbenaggine ripetuta.

 

Eco, l’entità pensante, virtuale e concreta insieme, mestamente guardava e commiserava quella situazione. Per pudore, garbo, e gentilezza d’animo etereo, si limitava al proprio sguardo dolente sul suo alter ego.

Il barone, continuava a tirare diritto.

Entrambi sapevano reciprocamente i pensieri l’uno dell’altra.

Lei stava allenandosi con il proprio ologramma corporeo, ad assaporare il venticello di marzo; i profumi di verde delle radure; la promessa incombente di una primavera imminente.

Nel pianeta degli umani e degli altri esseri viventi corporei, la pandemia continuava a falcidiare.

Due milioni e mezzo era un dato ormai superato del funebre e macabro consuntivo.

I governi si arrabattavano alla bell’e meglio.

Giocando a ruba mazzetto per accaparrarsi le partite dei vaccini.

Questo sì-questo no.

E giravano i soldi.

E giravano i carri funebri.

E specie nelle parti più diseredate gli umani morivano come mosche.

Altrove, insubordinati scavezzacolli, seguivano stupidamente i suggerimenti che i vari lucignolo propagavano.

Raduni; movide collettive; proteste contro le regole imposte; i governi e le autorità sanitarie.

La terra era piatta.

Il virus era una semplice influenza stagionale (anche se però durava ormai da qualche anno).

Il vaccino: una presa per i fondelli.

Tripudio del masochismo di massa.

                                                                  

Ogni tanto il velario azzurro intenso sospeso in alto faceva trapelare un sole tiepido che scaldava le ossa.

La coppia virtuale assaporava la stagione e i momenti.

Molti onesti e rispettosi donne e uomini si aggiravano indossando la mascherina sul volto. Qualcuno, in modo sprezzante e stupido, la teneva calata solo sul mento.

Altri, si permettevano la marachella di mostrarsi ribelli.

E citavano, senza neppure averla mai letta o sentita, la frase famosa: “DOPO DI ME IL DILUVIO”. Nessuno di loro, sapeva o voleva attribuirla al monarca supponente che l’aveva pronunciata alla marchesa de Pompadour… Quel Luigi XV, che avrebbe poi ceduto il trono al nipote Luigi Augusto di Borbone: Luigi XVI. Fino al 1792, con la rivoluzione francese.

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