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lunedì 5 febbraio 2018

LA MAESTRA CARLETTI










Fino ad allora avevo conosciuto solo piccole scuole elementari di paese. Essendo comunista e della Cgil non ero mai riuscito nonostante le ripetute domande fatte a essere inserito nelle prime scuole a tempo pieno che nascevano a Novara. Mi ero perciò risolto a trasferirmi dove capitava. La scuola non avevA una gran fama di modernità o di esperienze avanzate. io avevo sempre insegnato seguendo le indicazioni del movimento di cooperazione educativa. La lingua italiana le usavamo per fare i testi liberi, che venivano sottoposti all'analisi critica di tutta la classe. E per quello scelto come più significativo facevamo la messa a punto. Che consisteva nello scriverlo alla lavagna e sottoporlo a modifiche aggiustamenti correzioni ortografiche linguistiche semantiche. Il nuovo testo veniva poi battuto a macchina da me con l'aiuto dei ragazzi sulle "matrici", per essere poi stampato al ciclostile, o in alternativa con il piccolo Limografo a mano che avevo comperato io. Quando avevamo un certo numero di testi pronti stampavano il giornalino. Una pubblicazione di qualche decina di pagine. Sui disegni già stampati in matrice, gli alunni e squadra o singolarmente raggiungevano la coloritura. Veniva pinzato. E poi lo si vendeva. Genitori, zii, nonni, vicini di casa con i soldini che ci davano, permettevano l'acquisto di nuove matrici, dell'inchiostro, e dei foglioni di carta da pacchi bianca sulla quale i ragazzi e le ragazze dipingevano immensi disegni favolosi con le tempere murali a colori sempre comprate con la nostra cassa. La quale veniva gestita facendo matematica e aritmetica pratica dagli alunni in piccole squadre di contabili. Avevo comperato anche innumerevoli schedari di autocorrezione ortografiche sintattica, di aritmetica, di storia e antropologia. Tutta la classe nello spirito metodologico adottato diventava proprio una "cooperativa". Il maestro era il regista, il superesperto, l'amico grande delle bambine e dei bambini. Facevamo musica usando la mia chitarra. E spesso costruendo strumenti artigianali con vecchi scatoloni di cartone rigido dei detersivi, bastone di scope per manico, fili di nylon… Tamburi, chitarroni, e altri strumenti a percussione con sassolini e semi vari… Le esecuzioni le registravo insieme a loro e le ascoltavamo spesso ci raggiungevamo anche delle parole facendole diventare delle canzoni. Le scienze biologiche chimiche e fisiche le studiavamo tenendo animali in classe, nutrendoli accudendoli e facendo crescere pianticelle di cui registravano gli sviluppi facendo continue osservazioni.
La scuola dove mi trasferivo in periferia di Novara veniva chiamata Rizzottaglia. Da un vecchio nome di allattare ormai applicato al quartiere e stabilmente ad una via che lo attraversava.
Mi trovai abbastanza spaesato con tutti quei colleghi e colleghe. Pochi gli uomini come sempre. Uno lo ricordo era un idiota che aveva comperato una laurea al sud. Non sapeva fare un tubo, e spesso durante le ore di lezione affidava la classe alla bidella o al capoclasse e andava per i fatti suoi a fare la spesa.
Era abbastanza difficile starmene chiuso nella mia aula a rifare il percorso che avevo fatto finora. Dopo gli anni numerosi che avevo avuto nelle scuole medie o nelle scuole superiori.
Nell'intervallo a turno ci trovavamo in una specie di auletta insegnanti, a bere il caffè. Confesso che colleghi e colleghe non mi piacevano per niente.
In particolare avevo abbastanza soggezione di una maestra che era certamente la decana della scuola. Alta, diritta, asciutta, abbastanza segaligna. Le rare volte che l'aveva incontrata non l'avevo mai viste sorridere.
Trascorsi  due anni in quell'ambiente.
Nel frattempo avevo preparato il concorso direttivo. E probabilmente avevo offerto io il caffè e i pasticcini quando avevo avuto la notizia della vincita.
Fu  probabilmente in quell'occasione che la decana della scuola mi sorprese.
La chiamavamo maestra Carletti. Chi era più in confidenza la chiamava Tina. Non  era la maestra fiduciaria o responsabile della scuola. Ma era comunque un punto di riferimento. Tutti la stimavano. Io non la conoscevo quasi per niente.
Mi avvicino durante il rinfresco. Sapevo che era cattolica e credente. E sapevo anche che era una maestra di vecchia maniera per quanto molto stimata professionalmente.
Mi apostrofò così più o meno:
"Sapevo e  immaginavo che tu Nanni avresti vinto il concorso. Non ho mai visto il tuo modo di insegnare ma da quello che i colleghi e le colleghe mi dicono fai delle cose meravigliose. Io insegno alla vecchia maniera. L'unico modo che conosco. Probabilmente la pensiamo anche in modo diverso rispetto al mondo alla fede e ad altre cose.
Se ne fossi capace vorrei tanto fa scuola come la fai tu. Sono contenta che tu per questi due anni sia stato qui con noi. Una ventata di modernità e di rinnovamento scolastico. Io ormai sono abbastanza vecchia e fra un po' andro in pensione. Mi auguro che i colleghi imparino da te. Rappresentiamo due mondi diversi. Sono contenta di aver incontrato il tuo mondo, stravagante, trasgressivo, giovane e vivace. Ti auguro di trovarti bene con il suo nuovo lavoro. Complimenti!"
Non potei fare a meno di restare turbato piacevolmente e di abbracciare quella persona.
Al di sotto della sua maschera rude severa austera, del suo mondo cattolico e conformista, aveva fatto un grosso passo per uscirne fuori, accostandosi alla mia realtà, scandalosa probabilmente per lei, dicendo che mi stimava, e dicendomi che anche nella diversità ci può essere affetto e stima.
La maestra Carletti aveva anche spesso fuori dalla porta della scuola sotto il porticato la figliola che la stava aspettando.
Era un piccolo angelo dagli occhi luminosi fosforeggianti. Poco più che adolescente. Lanciava sguardi affascinanti. Le rare volte che l'aveva incontrata lì, ne ero rimasto decisamente affascinato.
una volta ricordo che mentre terminate le mie ore di lezione toglievo il lucchetto della vecchia bicicletta metallica dei freni a bacchetta, per tornarmene a casa, intravidi il piccolo diabolico adolescenziale angelo. Non abbassava mai lo sguardo quando mi vedeva. Anzi mi provocava con sguardi luminosi in cui galleggiava un sorriso intenzionale anche se sfumato. Mi tremava l'anima e il cuore.dopo avere diverse volte ricambiato gli sguardi con altrettante intenzionalità, una volta non riuscì a trattenere mie le dissi: "CHE BELLA COSA CHE SEI"… Mentre lo dicevo provavo un profondo turbamento che immagino l'abbia provato anche lei.
In altri contesti l'avevo poi rincontrata. Una volta era anche venuta nella mia casetta di scapolo a trovarmi. Ricordo anche che l'avevo baciata. Spaventandola. E facendola scappare e non rivedere mai più.
Uno  dei rovesci della medaglia della maestra Carletti, o Frangipane come davvero si chiamava, era questa bambina adolescente deliziosa che mi faceva venire il batticuore. Allora non sapevo che poi l'avrei rincontrata … E che cosa ne sarebbe nato…
Ma questa è un'altra storia.

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