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martedì 20 febbraio 2018

LE OSTERIE DEI POVERI

LE OSTERIE DEI POVERI
 Modulato, morbido, fluente il tuo racconto continua... E ti ci vedo come immagino fossi nella ragazzina che fai rivivere regalandoci quel suo e tuo purgatorio immeritato e doloroso.
Ed è proprio, per me che ti leggo, la Lucia di quel tempo che sta scrivendo. E raccontando.
Altre volte e altrove il Nanni bambino e ragazzo aveva raccontato.
Qui sono l'io di oggi, che ricorda e racconta.
Ci ho ripensato di recente a un racconto che mi stava frullando in testa. In pieno centro della città dove abita mia figlia, c'è ora un ristorante molto elegante, raffinato, che offre cucina tipica di qui.
Hanno allargato la porta dell'ingresso. Una scritta ricorda ancora la funzione che aveva un tempo.
Era una mescita di vino sfuso. Un portoncino di legno vecchio verniciato molte volte di colore bruno grigio restava spalancato nelle ore di apertura.
Dovevo esserci entrato qualche volta. Da ragazzo per comprare da bere per i miei.
Un odore acre di vino galleggiava nell'aria.
Un bancone o tavolone sul quale erano disposti dei piccoli minuti bicchieri.
Nel retro damigiane di vari generi di vini. Presumo di qualità abbastanza scadenti.
I clienti avevano diritto ad assaggiare in quei piccolissimi bicchieri prima di scegliere.
Ma c'erano anche clienti e assaggiatori che ne approfittavano per bere gratis la droga dei poveri.
Facevano quello che si diceva il giro delle osterie o anche in modo più ironico il giro delle chiese.
Nella mia antica a casa di fine 700, mia madre, che non aveva reddito avendo smesso da anni di cantare come soprano alla scala ed essendo rimasta giovane vedova, aveva messo a disposizione di un venditore di vino il piano terra. In affitto.
Un'immensa stanza di circa 50 metri quadrati dal soffitto altissimo di 5 o 6 metri tutto a cassettone di noce dai quali spuntavano vecchi chiodi per appenderci qualcosa un tempo.
Il pavimento di piastrelle di cemento verniciato. Il bellissimo camino tardo barocco era nascosto dal bancone.
Nel piano sottostante una cantina a volte altissime , e, su cavalletti e assi di legno, infinite damigiane.
Avevo scoperto bene poi molti anni più avanti questi particolari quando avevo ristrutturato tutto il piano terra per fare nel mio alloggio... Il soffitto della cantina recava ancora i fori con i tubi che dalle damigiane portavano direttamente il vino sopra il bancone per spillarlo a rubinetto.
La fiaschetteria era gestita da due fratelli veneti. Nel cortile ci si affacciava un alloggio di altri inquilini. Mentre il marito era a lavorare in fabbrica , sua moglie una bella donna che aveva un occhio che guardava per conto suo, stendeva il bucato nel cortile cantando canzoni napoletane.
Uno dei vinai spesso si affacciava nel cortile e ricordo le rare volte che ero a casa dall'istituto che cantava una canzoncina di quel tempo " Ven chi nineta suta l'umbrelin, ven chi nineta te darù un basin..."la Ninetta che veniva invitata sotto l'ombrellino che non c'era a ricevere un bacino sorrideva compiaciuta a quell'approccio amoroso che io facevo finta di non avere notato.
Ricordo che una volta uno dei due fratelli, quello più simpatico, aveva accompagnato me e mio fratello in cantina per farci vedere come "si faceva il vino"...
E ci aveva spiegato che bastava prendere un po' di vino dalle damigiane, mescolarlo con l'acqua e mettergli delle polverine che conosceva lui e nessuno se ne sarebbe accorto... Credeva che i ragazzini di allora non notassero i suoi approcci amorosi e la sofisticazione del vino...
Anche lì, al bancone appoggiavano i gomiti gli avventori che venivano a scroccare un assaggio di vino, per una leggera bevuta a puntate...
Probabilmente erano molto diffuse in città mescite di vino per i bevitori poveri.
All'istituto i nostri assistenti ricevevano uno stipendio e salario da fame. Per il fatto che avevano l'alloggio e il vitto gratis e per il lavoro modesto e meschino che svolgevano.
Molti di loro nelle ore di libera uscita in cui non erano presenti a farci da carcerieri e da guardiani, giravano le osterie. Noi ragazzi li sentivamo mentre parlottavano tra loro credendo di nuovo, anche loro, che noi ragazzi non capissimo.
Un assistente aveva ancora residui di parlata Veronese. Un altro era molto giovane, camminava coi piedi piatti. Lo chiamavamo Il paesano, "paisan" in dialetto.
E quando ci castigava dava delle sberle terribili con le sue grosse mani che sembravano guantoni da boxe.
Quando una volta mi sorprese commettere, da ragazzo il "terribile comportamento", di percorrere le poche centinaia di metri dalla mia scuola media fino al portone lasciandomi accompagnare da una ragazzina, poichè mi vergognavo a dirle che era proibito, ricevetti terribili sberle. Saltai il pranzo e rimasi un mese in castigo. Che consisteva nel trascorrere le ore di ricreazione in piedi fermo immobile accanto a una colonna mentre i compagni giocavano.
Un altro assistente che chiamavamo il polacco, per la sua origine, era ancora più perverso e sadico. Seguiva il gruppo dei ragazzi più piccoli coi quali spesso sfogava la sua rabbia costringendoli decine di volte a vestirsi e rivestirsi continuamente.
Il vino degli assaggi gratuiti probabilmente non gli bastava. Sotto il letto, dietro la tenda scorrevole dove dormiva, quando scopavamo per pulire le camerate c'erano montagne di bottiglie di superalcolici vuote.
Diverse volte l'avevamo trovato ubriaco fradicio sulle scale che portavano alle camerate. Quella massa scura del corpo immobile sdraiato sui gradini ci aveva spaventati.
Solo una volta aveva provato ad alzare le mani non solo sui bambini più piccoli o quelli di media età ma con uno più grande.
Aveva dovuto ritirarsi in un angolo spaventato squittendo come un ratto di fogna. Rannicchiato coprendosi il capo con le mani!
Il ragazzo grande gli si era ribellato apertamente.
Era, il ragazzo, quello stesso che clandestinamente mi aveva fatto avere da ragazzino la proibitissima clandestina tessera della federazione giovanile comunista.
Se me l'avessero sorpresa nelle ricorrenti perquisizioni corporali, non me la sarei cavata con le sberle che facevano rintronare la testa per ore. Sicuramente sarei stato espulso. Ma mia madre con il magro reddito degli affitti e delle poche lezioni riusciva a dare (quando venivano pagate!) dagli amanti della lirica, non ce l'avrebbe fatta.
E con aria molto distaccata posso ora ricordare quei tempi. Che mi sono tornati in mente quando sono entrato in quella trattoria elegante, dalla cucina tipica novarese, ritornando a quei magri sparuti ricordi della fiaschetteria e mescita di vino di quarto ordine, per i bevitori scrocconi, mescolati ai miei assistenti.
Che si contentavano degli assaggi in quei bicchierini minuscoli. E che probabilmente frequentavano anche i vinai della mia vecchia casa.
Dalla quale poi scomparve il bancone. Il pavimento di cemento colorato fu sostituito dal cotto ceramica. Le travi a cassettone del soffitto vennero sabbiate. Costruìi da solo un immenso soppalco a balconata per la libreria. Con la scala di legno per arrivarci. Ricordo che per un mese o più ruppi le scatole a tutto il vicinato, dal mattino prestissimo fin quasi a notte, inchiodando, avvitando e tagliando travi.
Facendone naturalmente il mio alloggio.
Il camino tardo barocco ricevette la vernicetta per somigliare un pochino a quello che era stato al tempo del cardinal Cacciapiatti che aveva abitato lì.
Che c'aveva lasciato, sotto strati numerosi di imbiancatura a calce e a colore, affreschi lugubri di festoni che per fortuna la sovrintendenza delle belle arti non scoperse mai.
Riesco ad entrare alla trattoria del centro all'angolo delle ore, accanto alla casa che ho regalato a mia figlia, e forse solo per qualche istante mi tornano in mente la mescite di vino alla buona.
E non risuonano più nella mia testa le sberle terribili o la ferocia disumana degli adulti ai quali io e tanti altri ragazzini venivano affidati in quel tempo, visto che eravamo orfani e di famiglie poco abbienti.
Ma allora le cose andavano così.
Già qualche volta ho raccontato nei miei lavori di narrativa episodi di quel tempo lontano. L’ho abbastanza elaborato. Lo racconto alle persone care. Annoiando forse a volte la donna che amo. Facendola diventare un po' mesta e malinconica.
Ma prima di chiudere quei ricordi, di metterli nel cassetto del racconto e della narrazione, mi sento vicino a tutte le persone che oggi vivono situazioni analoghe se non addirittura più brutali.
E mi sento particolarmente vicino all'amica Lucia. Alla sua infanzia che in modo accorato ci sta regalando. Con la sua scrittura magica, garbata, affettuosa.
Con la voce narrante che per me è quella della ragazzina di allora.
Grazie Lucia.
LE OSTERIE DEI POVERI
(a 
Lucia Salvato)
Modulato, morbido, fluente il tuo racconto continua... E ti ci vedo come immagino fossi nella ragazzina che fai rivivere regalandoci quel suo e tuo purgatorio immeritato e doloroso.
Ed è proprio, per me che ti leggo, la Lucia di quel tempo che sta scrivendo. E raccontando.
Altre volte e altrove il Nanni bambino e ragazzo aveva raccontato.
Qui sono l'io di oggi, che ricorda e racconta.
Ci ho ripensato di recente a un racconto che mi stava frullando in testa. In pieno centro della città dove abita mia figlia, c'è ora un ristorante molto elegante, raffinato, che offre cucina tipica di qui.
Hanno allargato la porta dell'ingresso. Una scritta ricorda ancora la funzione che aveva un tempo.
Era una mescita di vino sfuso. Un portoncino di legno vecchio verniciato molte volte di colore bruno grigio restava spalancato nelle ore di apertura.
Dovevo esserci entrato qualche volta. Da ragazzo per comprare da bere per i miei.
Un odore acre di vino galleggiava nell'aria.
Un bancone o tavolone sul quale erano disposti dei piccoli minuti bicchieri.
Nel retro damigiane di vari generi di vini. Presumo di qualità abbastanza scadenti.
I clienti avevano diritto ad assaggiare in quei piccolissimi bicchieri prima di scegliere.
Ma c'erano anche clienti e assaggiatori che ne approfittavano per bere gratis la droga dei poveri.
Facevano quello che si diceva il giro delle osterie o anche in modo più ironico il giro delle chiese.
Nella mia antica a casa di fine 700, mia madre, che non aveva reddito avendo smesso da anni di cantare come soprano alla scala ed essendo rimasta giovane vedova, aveva messo a disposizione di un venditore di vino il piano terra. In affitto.
Un'immensa stanza di circa 50 metri quadrati dal soffitto altissimo di 5 o 6 metri tutto a cassettone di noce dai quali spuntavano vecchi chiodi per appenderci qualcosa un tempo.
Il pavimento di piastrelle di cemento verniciato. Il bellissimo camino tardo barocco era nascosto dal bancone.
Nel piano sottostante una cantina a volte altissime , e, su cavalletti e assi di legno, infinite damigiane.
Avevo scoperto bene poi molti anni più avanti questi particolari quando avevo ristrutturato tutto il piano terra per fare nel mio alloggio... Il soffitto della cantina recava ancora i fori con i tubi che dalle damigiane portavano direttamente il vino sopra il bancone per spillarlo a rubinetto.
La fiaschetteria era gestita da due fratelli veneti. Nel cortile ci si affacciava un alloggio di altri inquilini. Mentre il marito era a lavorare in fabbrica , sua moglie una bella donna che aveva un occhio che guardava per conto suo, stendeva il bucato nel cortile cantando canzoni napoletane.
Uno dei vinai spesso si affacciava nel cortile e ricordo le rare volte che ero a casa dall'istituto che cantava una canzoncina di quel tempo " Ven chi nineta suta l'umbrelin, ven chi nineta te darù un basin..."la Ninetta che veniva invitata sotto l'ombrellino che non c'era a ricevere un bacino sorrideva compiaciuta a quell'approccio amoroso che io facevo finta di non avere notato.
Ricordo che una volta uno dei due fratelli, quello più simpatico, aveva accompagnato me e mio fratello in cantina per farci vedere come "si faceva il vino"...
E ci aveva spiegato che bastava prendere un po' di vino dalle damigiane, mescolarlo con l'acqua e mettergli delle polverine che conosceva lui e nessuno se ne sarebbe accorto... Credeva che i ragazzini di allora non notassero i suoi approcci amorosi e la sofisticazione del vino...
Anche lì, al bancone appoggiavano i gomiti gli avventori che venivano a scroccare un assaggio di vino, per una leggera bevuta a puntate...
Probabilmente erano molto diffuse in città mescite di vino per i bevitori poveri.
All'istituto i nostri assistenti ricevevano uno stipendio e salario da fame. Per il fatto che avevano l'alloggio e il vitto gratis e per il lavoro modesto e meschino che svolgevano.
Molti di loro nelle ore di libera uscita in cui non erano presenti a farci da carcerieri e da guardiani, giravano le osterie. Noi ragazzi li sentivamo mentre parlottavano tra loro credendo di nuovo, anche loro, che noi ragazzi non capissimo.
Un assistente aveva ancora residui di parlata Veronese. Un altro era molto giovane, camminava coi piedi piatti. Lo chiamavamo Il paesano, "paisan" in dialetto.
E quando ci castigava dava delle sberle terribili con le sue grosse mani che sembravano guantoni da boxe.
Quando una volta mi sorprese commettere, da ragazzo il "terribile comportamento", di percorrere le poche centinaia di metri dalla mia scuola media fino al portone lasciandomi accompagnare da una ragazzina, poichè mi vergognavo a dirle che era proibito, ricevetti terribili sberle. Saltai il pranzo e rimasi un mese in castigo. Che consisteva nel trascorrere le ore di ricreazione in piedi fermo immobile accanto a una colonna mentre i compagni giocavano.
Un altro assistente che chiamavamo il polacco, per la sua origine, era ancora più perverso e sadico. Seguiva il gruppo dei ragazzi più piccoli coi quali spesso sfogava la sua rabbia costringendoli decine di volte a vestirsi e rivestirsi continuamente.
Il vino degli assaggi gratuiti probabilmente non gli bastava. Sotto il letto, dietro la tenda scorrevole dove dormiva, quando scopavamo per pulire le camerate c'erano montagne di bottiglie di superalcolici vuote.
Diverse volte l'avevamo trovato ubriaco fradicio sulle scale che portavano alle camerate. Quella massa scura del corpo immobile sdraiato sui gradini ci aveva spaventati.
Solo una volta aveva provato ad alzare le mani non solo sui bambini più piccoli o quelli di media età ma con uno più grande.
Aveva dovuto ritirarsi in un angolo spaventato squittendo come un ratto di fogna. Rannicchiato coprendosi il capo con le mani!
Il ragazzo grande gli si era ribellato apertamente.
Era, il ragazzo, quello stesso che clandestinamente mi aveva fatto avere da ragazzino la proibitissima clandestina tessera della federazione giovanile comunista.
Se me l'avessero sorpresa nelle ricorrenti perquisizioni corporali, non me la sarei cavata con le sberle che facevano rintronare la testa per ore. Sicuramente sarei stato espulso. Ma mia madre con il magro reddito degli affitti e delle poche lezioni riusciva a dare (quando venivano pagate!) dagli amanti della lirica, non ce l'avrebbe fatta.
E con aria molto distaccata posso ora ricordare quei tempi. Che mi sono tornati in mente quando sono entrato in quella trattoria elegante, dalla cucina tipica novarese, ritornando a quei magri sparuti ricordi della fiaschetteria e mescita di vino di quarto ordine, per i bevitori scrocconi, mescolati ai miei assistenti.
Che si contentavano degli assaggi in quei bicchierini minuscoli. E che probabilmente frequentavano anche i vinai della mia vecchia casa.
Dalla quale poi scomparve il bancone. Il pavimento di cemento colorato fu sostituito dal cotto ceramica. Le travi a cassettone del soffitto vennero sabbiate. Costruìi da solo un immenso soppalco a balconata per la libreria. Con la scala di legno per arrivarci. Ricordo che per un mese o più ruppi le scatole a tutto il vicinato, dal mattino prestissimo fin quasi a notte, inchiodando, avvitando e tagliando travi.
Facendone naturalmente il mio alloggio.
Il camino tardo barocco ricevette la vernicetta per somigliare un pochino a quello che era stato al tempo del cardinal Cacciapiatti che aveva abitato lì.
Che c'aveva lasciato, sotto strati numerosi di imbiancatura a calce e a colore, affreschi lugubri di festoni che per fortuna la sovrintendenza delle belle arti non scoperse mai.
Riesco ad entrare alla trattoria del centro all'angolo delle ore, accanto alla casa che ho regalato a mia figlia, e forse solo per qualche istante mi tornano in mente la mescite di vino alla buona.
E non risuonano più nella mia testa le sberle terribili o la ferocia disumana degli adulti ai quali io e tanti altri ragazzini venivano affidati in quel tempo, visto che eravamo orfani e di famiglie poco abbienti.
Ma allora le cose andavano così.
Già qualche volta ho raccontato nei miei lavori di narrativa episodi di quel tempo lontano. L’ho abbastanza elaborato. Lo racconto alle persone care. Annoiando forse a volte la donna che amo. Facendola diventare un po' mesta e malinconica.
Ma prima di chiudere quei ricordi, di metterli nel cassetto del racconto e della narrazione, mi sento vicino a tutte le persone che oggi vivono situazioni analoghe se non addirittura più brutali.
E mi sento particolarmente vicino all'amica Lucia. Alla sua infanzia che in modo accorato ci sta regalando. Con la sua scrittura magica, garbata, affettuosa.
Con la voce narrante che per me è quella della ragazzina di allora.
Grazie Lucia.


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