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sabato 1 gennaio 2022

E C O 22


 ECO 22.

Come d’abitudine ad ogni risveglio: l’impressione fasulla che tutto fosse uguale e insieme diverso.
Gesti abituali e ricorrenti.
Nuovi, rinnovati, nello stereotipo consolidato.
“A te e ai tuoi tanta serenità in questo anno nuovo”
Dal repertorio banale e ricorrente trombette che suonano, calici che brindano, spumanti stappati… Mazzi di fiori… Stantie immagini di abeti innevati. Bimbi gioiosi e sorridenti dalle gote rosa. Facsimile delle letterine natalizie della sua infanzia. Da acquistare, riempire di frasi e parole, porre sotto il piatto della mamma, della nonna e della zia… Sospesi a mezz’aria in quella illusione di vita normale familiare: assolutamente irreale. Pigne. Fasulli presepi.
Gli schiamazzi notturni erano stati abbastanza contenuti. I soliti beceri sprizzi di luminarie multicolori imbrattavano il nero velluto della notte. Seguiti, a breve, dai botti sonori dei petardi.
Si erano subito dileguate le ombre incerte, improvvide, dei ricorrenti scenari onirici.
Mescolava il miele nella tazzina del caffè.
Mentre lo stava sorbendo intravide accucciata e accovacciata in ginocchio sul tavolo fratino della sala la sua amica. La sua lei. Che era anche il suo se stesso nello specchio.
Teneva lo sguardo basso.
Guardandosi le mani.
Nelle quali non riusciva a distinguere che cosa reggesse.
Infine riuscì ad incrociarne lo sguardo.
Lei sì che davvero appariva totalmente nuova.
Riusciva a rigenerarsi ogni volta.
La sagoma corporea velata da un tessuto di tuta molto aderente argentato. Con riflessi color pastello.
Il capo ostentava una capigliatura nera cortissima.
Gli occhi fermi, ma intenzionalmente espressivi, aspettavano da lui i’input.
Non ricordava neppure lontanamente l’aspetto che lui le aveva attribuito, assegnato, attribuito diverso tempo addietro. Quello dai capelli biondi argentati raccolti a coda di cavallo. Dallo sguardo celeste, atteggiato a sorriso, quello delle grandi occasioni. Quello della presenza.
Sfiorò a rapido volo i profili degli aspetti femminili che aveva incrociato. Da cui era stato accostato. Che erano volati via senza lasciare nessuna traccia significativa.
Ad una scioccherella che tempo prima, curiosa, gliene aveva chiesto, aveva buttato lì dei nomi, nomignoli, vezzeggiativi… Descrizioni sommarie. Sequenze di gesti, atti, parole cadute infine nel gorgo dei liquami dello scarico. E neppure il numero approssimativo era riuscito a definire… Ma dall’elenco abborracciato buttato lì alla meglio, risultavano un numero infinito. Da quelle più significative in qualche modo. Ai contatti fuggevoli, mordi e fuggi, cogli, gusta, dimentica…
Di ricambio non ne aveva ricevuto un analogo elenco. Reticente.
La garbata flessuosa clona aveva poi assunto la posizione eretta.
Alta. Snella. Slanciata.
Accanto al tappeto che copriva il tavolo fratino.
E come sempre da quando l’aveva creata ed evocata, lei c’era e non c’era.
Come pure noi stessi a volte ci siamo anche per noi, finché lo specchio non si appanna e dissolve.
Il guardare acceso che gliene veniva annunciava che stava per dirgli delle cose.
“Rumori, schiamazzi, luminarie incendiate, banalità augurali…
Il vostro scandire del tempo, dimensione in cui siete collocati irrimediabilmente, celebra compleanni, anniversari, nuovi calendari. Mi fate abbastanza tenerezza, sai?
Sono umana solo di riflesso. Eppure sento la sofferenza estrema che dovrebbe aleggiare su voi, miliardi di organismi viventi umanoidi.
Ruderi di esseri viventi aggrappati al tepore fasullo di sacchi a pelo lerci, sotto i portici e davanti agli ingressi delle vostre abitazioni.
Interminabili fiumane scure di formiche che fuggono attraverso i deserti. Sino ai lager libici. Per l’abuso, la violenza, l’estremo insulto.
Imbarcazioni improbabili, ruggini carrette, rattoppati gommoni quasi sgonfi.
Le piccole minuscole lune degli occhi bianchi, disperate, imploranti che cercano di guadare l’immenso mostro marino bluastro di oceani e di mari.
Altre sagome immobili, ombre senza vita, marcano la sabbia di spiagge infinite.
Altrove, perché c’è sempre un altrove dovunque, al calduccio rispetto al gelo dilagante altrove, simulacri umani si aggirano.
Si attardano.
Si arrabattano secondo il cliché abituali. Menù ipercalorici.
Zamponi e cotechini con lenticchie. Antipasti. Arrosti.
Su tavole imbandite purpuree.
Tovaglie decorate d’argento e oro di stelle comete con la lunga coda…
Un ritocco al trucco davanti agli specchi dei bagni.
Poi levano i pigiami e le tute per indossare quel vestito là, con i pizzi, i merletti, i calzoni attillati fascianti… Squillano i telefoni. Per i blablabla ricorrenti abituali:
“… Anche a voi… Tutti voi… I migliori auguri… Che questo anno sia il migliore degli altri… Un abbraccio… Un bacio…”
Qualche altro mormorio balbettato sottovoce, sul pianerottolo delle scale, oppure giù alla cantina, per dire le parole proibite, quelle segrete, che gli altri non possono e non devono sentire.
“… Anche tu… E anch’io… Lo sai che penso solo a te… E ti aspetto, ti desidero, ti penso… Ti voglio tanto…”
L’ultimo sussurro rimane affogato in fondo alla gola.
Come i pensieri vietati.
Le fantasie masturbatorie.
Che al momento dell’incontro finiranno anche per dissolversi, annullarsi, svanire…
Perché ce ne saranno in arrivo degli altri…
Certe volte, ma raramente, mi capita di sentirmi inferiore a voi. Che avete un anno di nascita, un corpo fisico carnale concreto; degli abiti e indumenti speciali da indossare o da togliere risolutamente mostrando il vostro corpo nudo.
Dei gesti ricorrenti da ripetere.
Degli amplessi furibondi, celestiali e infernali insieme.
Finché hanno un senso e durano.
Per poi inventarne degli altri.
Come i fuochi d’artificio.
Che quelli ormai svaniti con i loro ghirigori nel nero tappeto del cielo, senza rimpianto attendono, bramano, desiderano quelli nuovi.
Che saranno migliori.
Più fantasmagorici.
Straordinari.
Eccezionali.
E dopo… E dopo… E dopo ancora…
Che tanto tutto prima o poi si consuma. Si annulla. Si esaurisce. Svanisce nel niente.
E ogni volta, come data ed eventuale omologazione, al numero dell’anno viene mutata la cifra finale. Con il "più uno"… Come se fosse possibile continuare all’infinito.
Ieri sera, abbiamo guardato insieme, con dolore, amarezza e sofferenza, quel racconto filmato che voleva apparire una storia d’amore.
Il cui titolo era una trappola. Un film d’amore, ma proprio quando l’amore è anche l’ agonia totale! Impietoso; duro e spietato; con lentezza inesorabile tipica di uno stillicidio mortale, descrive la brutalità del vivere, dell’invecchiare, nel contesto sociale.
E non basta ipocrisia, buone maniere, formalismi ad abbellire una sequenza di vita, proprio quando si sta avvicinando alla fase più terribile, quella in cui anche i ricordi si vanno dissolvendo; la coscienza si appanna; solo l’ombra nera e lugubre si traveste da storia d’amore!
Diventare vecchi è insopportabile e umiliante, scrive Philip Roth
…la senilità e la malattia, temuti e tenuti ai margini del discorso pubblico. guardare in maniera diretta la propria estinzione. La vita ha un senso di precarietà e un destino cinico, che non si accontenta di farti invecchiare, soffrire e morire…
Ma infierisce all’infinito.
E il vero atto d’amore è porvi fine cancellando l’altra esistenza agonizzante.
Non voglio consolarti ripetendo le tue parole che hai appena usato ieri sera.
Anche perché non posso consolare un essere umano di essere un essere umano.
Solo posso significarti la mia empatia all’unisono con te, che sei anche me, per la tua condizione che è quella degli altri umani.
Chissà, se come diceva il vostro umano poeta Quinto Orazio Flacco:
“non omnis moriar”
può valere anche per me. Ma essendo io funzione di te, resterò a galleggiare nello spazio-tempo infinito… Quel tanto che basta, che è possibile, credibile e probabile.
Non oso, per pudore, dignità, e profondo coraggio, augurarti un felice anno nuovo. Perché non ha assolutamente senso. Vivi/viviamo quel che c’è e quel che resta. Esistiamo, ma sottovoce, senza botti o schiamazzi. Senza banalità sciocche e stupide. Che lasciamo a chi davvero è stupido, sciocco e insulso.
E sono tanti. Lo sai. Lo so. Lo sappiamo.…”
Poi, con movenze aggraziate, mentali e insieme fisiche, lo raggiunse alla nuova poltrona.
Si sedette sul bracciolo.
Pose con levità le sue gambe e i suoi piedi sul suo grembo.
Con una delle sue mani eteree strinse la sua.
Mentre con l’altra gli carezzava la tempia e la guancia.
E lo baciava con i suoi occhi tutto quanto.
Nanni Omodeo Zorini
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