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domenica 22 maggio 2016

L’AMORE DELLE TRE MELAGRANE -.12- ricordi e fantasmi

L’AMORE DELLE TRE MELAGRANE -.12- ricordi e fantasmi
Le tre melagrane erano ancora poggiate sulla tavola di pietra.
La ragazza della prima stava ancora raccontando la realtà con occhi dolci e a volte e malinconici altre.
La ragazza della seconda si era solo affacciata un momento per raccontare un sogno gradevole, possibile forse, ma totalmente irreale.
L'ultima melagrana sul bordo esterno aspettava di raccontare la sua solitudine.
Muovendo al vento leggero di maggio i suoi capelli biondi come oro, la prima ragazza continuava il suo racconto.
"-Ma quando tu eri la, in quel posto brutto, i tuoi potevano qualche volta venirti a trovare?
-C'erano regole ferree terribili disumane. La prima domenica del mese con qualsiasi tempo, dovevamo preparare nel cortile vicino alle colonne del porticato delle panchine di legno. Tranne che in caso di pioggia, che allora venivano spostate al coperto dai portici. Freddo, sole, nebbia dovevano servire da incentivo a fare sbrigare abbastanza gli estranei e gli intrusi perché se ne andassero via e lasciassero tutte le teste rapate alla loro prigione di "istituzione totale".
Si stava ad aspettare in una delle stanze squallide da ricreazione o nello "studio".
Un ragazzo aspettava vicino alla portineria e poi correva le scale, si affacciava alla porta e diceva i nomi. Il nome mio e dei miei fratelli tardava quasi sempre a essere pronunciato. Dalle nove alle 12, forse, poi nessuno poteva più attardarsi. Arrivava il cerbero castigamatti con sguardo allucinato e feroce e li cacciava via in malo modo.
Spesso quando mancavano pochi minuti a mezzogiorno, il messaggero gridava con uno sguardo rincuorante: "Nanni, Cecco, Pinuccio…"
Ci andavamo giù con l'anima e il cuore in subbuglio. In un misto di contentezza, di rancore e di rimprovero. Ambivalenti abbracciavamo nostra madre, il suo colorito vistoso, i suoi capelli rossi di henné, l'odore stantio dei suoi cosmetici poveri e alla buona, di bellissima cantante lirica ormai decaduta.
Superati i momenti dei mugugni nostri di rimprovero, prendevamo posto al patibolo della panchina. Ci arrivavano notizie spesso assolutamente insignificanti e inutili. Ho visto la signora tal dei tali e mi ha detto… Mi ha telefonato anche il… La nonna vi manda un bacio e la sua benedizione piena di preghiere…
Un mesto pensiero affettuoso per quella donna austera che passava il giorno a rammendare nella penombra perché la luce le doleva gli occhi. Rammendava, cuciva, e pregava continuamente. Alta, quando stava in piedi ritta, i capelli bianchi in una lunga treccia che le circondava il capo a crocchia fermata con le forcine. Lo sguardo verde grigio, un po' spento, percorso da lievi tremiti del suo cuore gentile.
Prima di venire cacciati via, ci tenevamo stretti tutti e tre la nostra mamma. Che adoravamo. Che rimproveravamo.
E che intanto di nascosto sotto le borsette e i manicotti, passava a ciascuno di noi un pacchetto di carta oleata con dentro le delizie. Panini con la certosa, prosciutto crudo, olive, funghetti, e a sorpresa un pezzetto dal gusto pungente di pesciolini in carpione o addirittura di anguilla marinata.
Impacciati e nascondendoci in qualche modo con le mani, divoravamo quella delizia. Impossibile conservare quel cibo per dopo: al termine della visita parenti venivamo tutti perquisiti. E qualsiasi bene avessimo indosso veniva requisito. Il bottino insieme alle dosi ritenute abbondanti e consegnate settimanalmente per accompagnare il pane della nostra merenda di metà pomeriggio, veniva messo tutto insieme; spezzettato in dosi; e distribuito a casaccio fin dove arrivava al termine dei pranzi in silenzio nel refettorio.
Durante la distribuzione e il consumo del primo, si poteva chiacchierare; ma non troppo forte; altrimenti per castigo venivamo messi in silenzio. Appena arrivava il secondo, e due o tre ragazzi più grandi l'avevano distribuito con degli ampi vassoi di legno con le maniglie, ciascuno si avventava sulla propria porzione, usando soltanto il cucchiaio la forchetta: i coltelli naturalmente erano vietati.
Quindi con uno sguardo gelido e fiero da psicopatico il rettore, faceva suonare un campanellino che teneva davanti a sé.
Appena ottenuto il silenzio, cominciava la lettura: le cose più varie, eterogenee.
Da brani di "selezione dal reader digest” tradotto dall'americano. A brani a volte anche di narrativa. Alcuni addirittura piacevoli e interessanti. Quando era colto dai suoi raptus mistici e tenebrosi, ci leggeva storie terribili di persone decedute, che ritornavano dall'aldilà con luci fosforescenti, occhi infuocati, messaggi apocalittici che invitavano a fare penitenza e redimerci dal peccato. Ero rimasto colpito da uno di questi zombi narrativi che al termine del suo pistolotto funebre aveva addirittura appoggiato una mano su un tavolo di marmo, lasciandovi impressa in profondità l'orma!
Quando di notte nelle camerate ci alzavamo nella penombra per andare a fare pipì percorrendo un lungo ballatoio gelido, ci guardavamo sempre alle spalle temendo apparizioni terrificanti.
Consumati velocemente i pochi minuti a disposizione che mia madre ci regalava, senza certamente cattiva volontà, con ancora in fondo alla gola l'ultimo pezzetto saporito di cibo, tornavamo alle nostre tristi monotone abitudini quotidiane.
Per qualche minuto ancora restava nell'aria almeno per me, quell'odore un po' rancido e stantio dei rossetti e delle matite da trucco da tre soldi che mia madre usava. Un odore così l'avrei ritrovato dopo molti anni frugando nei cassetti del buffet in sala, mescolati a vecchi foglietti, pezzetti di corde, matite senza punta, promemoria incomprensibili…
Artemisia alzava ogni tanto il suo sguardo dolce pieno di mestizia. Poi gli carezzava la guancia.
-Ma ricordi belli? Almeno un po'?
-Rari. Anche il carnevale diventava un momento infernale e diabolico.
Il cuoco, che era anche una persona dolce normale e che non aveva alcun rapporto di severità o di disciplina con noi, con una scala tendeva da un lato all'altro del cortile una fune molto in alto sollevata. Verso metà di essa ci appendeva dei ganci. Ai ganci venivano attaccate delle pignatte. Si, delle pentole di terracotta marrone, sopra le quali era stato steso e legato un foglio di carta per tenerlo chiuso. Era un'usanza paesana, forse già in disuso quando veniva offerta a noi.
Veniva sorteggiato un numero, visto che tra l'altro il numero sostituiva il nostro nome.
Al fortunato o sfortunato prescelto venivano bendati gli occhi. Poi, stupidamente, mostrandogli alcune dita della mano davanti alla benda dagli occhi gli veniva chiesto: quante sono?
Appurato in quel modo che non vedeva nulla, gli veniva messo in mano un grosso bastone. Col quale ritto ben in alto il tapino si muoveva cercando di trovare in alto la corda o addirittura la pignatta. Le voci di tutti i ragazzi lo seguavano e lo aiutavano: avanti! No non te li versò destra! Ma no, un po' più indietro! Ci vai bene così…!
Anche questi suggerimenti erano visti di malocchio dal regista del satanico carnevale.
Raggiunto il rumore sordo metallico della pignatta contro il bastone, si trattava di prendere lo slancio e assestare un colpo forte. Molte volte i colpi andavano vuoto. E infine…
Il contenuto della pignatta cascava giù, talvolta insieme a qualche frammento di terracotta tagliente, e le masse ingorde si buttavano a pesce su quello che era uscito. Ne nascevano dei mucchi di corpi che cercavano di frugare in mezzo alla terra per raccogliere una liquirizia, una caramella, qualche altro modesto cibo per la loro fama infinita.
Il rettore, impugnava in quelle occasioni un corto bastone di legno in fondo al quale erano legati svolazzanti diversi pezzetti di corda di cuoio. Il gatto a nove code. E dopo aver urlato inutilmente di sollevarci da terra, arrivavano delle scudisciate sulle schiene. O addirittura prendere per gli stracci qualcuno con sberle e calci.
Talvolta la pignatta conteneva però addirittura solo segatura!
-Ma è terribile…!
-Ma i momenti più belli davvero per me, erano quelli in cui, insieme ai pochi miei accoliti che avevo, organizzavo io dei giochi.
Erano sempre del genere: facevamo finta che… Facciamo che io ero, e che voi eravate…
Con la mia fantasia fervida riuscivo a vedere le cose che stavamo raccontando giocando insieme. C'era di tutto. Frammenti di film visti qualche volta al cinema dell'oratorio, mie letture, mie fantasie.
Gli altri mi lasciavano il ruolo di regista e sceneggiatore.
Muovendoci saltellando ritmicamente e battendo con una mano sulla nostra natica destra, andavamo a cavallo… Facendo con la voce il rumore degli zoccoli… Percorrevamo vallate, combattevamo contro i draghi e contro i nemici… Liberavamo principesse bellissime incatenate… Vincevamo battaglie sanguinose terribili…
Credo che anche i miei complici e compagni vedessero come forse fanno tutti bambini quello che stavamo sognando e giocando.
I muri scrostati dei cortili, scomparivano per magia. Gli assistenti disumani con le loro facce da animali stupidi si perdevano nella nebbia del racconto. Prati e colline alberi ruscelli e corsi d'acqua… Castelli… Torri merlate da scalare… Fanciulle con gli sguardi dolcissimi bagnati di lacrime che ci imploravano di andare a salvarle… Da liberare… Da amare naturalmente!
Artemisia ora gli si era fatta ancora più vicina. Con le braccia lo avvolgeva e le mani di lei sfioravano e frugavano l'ex bambino che raccontava… Accoglieva volentieri dalle sue mani la pipa per dare anche lei qualche tiro di fumo acre.
-Quel passato che ora fai rivivere è un incubo… Lo vedo anch'io, ora, lontano, quasi irreale… Mentre parli sento che anche per te è lontano, superato, lo racconti come se non fosse neppure tuo, se non ti avesse fatto così male.
-Qualche altro breve episodio, gioia, anche questo lontano, da apparire quasi buffo.
L'appetito e la fame erano reali, per la scarsa alimentazione, ed erano anche psicologici, manifestazioni di carenze affettive e mancanza di allegria.
Mi chiedevi ieri la nostra alimentazione. A pranzo quasi sempre un primo, di pasta condita alla bell'e meglio con salsa di pomodoro usata con molta parsimonia, troppa; oppure un risotto quasi insipido, ormai scotto, come la pasta. Ma al mio appetito vorace sembravano leccornie. Il secondo era molto limitato. Due o tre fettine di salame cotto con delle lenticchie; oppure del tonno in scatola con dell'insalata; e poi il mio piatto prediletto che ti farà rizzare i capelli. La chiamavamo la "scarliga". Non esiste nel dialetto novarese qualcosa di simile e quindi probabilmente veniva da qualche altro posto trapiantato li con il nome è la ricetta ormai senza più radici culinarie.
Una specie di frittura in umido scurissima di frammenti di polmone, fegato pochissimo, milza, cuore bovino o suino. Il tutto fatto cuocere all'infinito sull'immensa cucina economica a legna immerso con aglio e cipolla tritata in un vino oscuro che gli dava quel colorito buio.
A me piaceva moltissimo. Cibo povero. Ad alcuni compagni non piaceva e allora me ne facevo passare i loro piatti che ingurgitavo golosamente. Ma non ero il solo.
Ricordo due ragazzi molto più grandi di me con i corpi massicci che una volta si erano messi a raccogliere piatti e piatti e piatti di scarliga…. E avevano continuato a mangiare mentre noi ridevamo.
Nella ricreazione dopo il pasto dovevano aver avuto una terribile sete perché avevano continuato ad andare al rubinetto della fontanella che c'era in cortile e che noi chiamavamo il pompino, e avevano continuato a bere. "Overdose alimentare". Indigestione.
Avevano cominciato a star male ed erano stati portati da un assistente al pronto soccorso. Avevano poi raccontato di aver continuato per ore e ore a rigettare schizzi di bolo alimentare nerastro.
La fame si tagliava col coltello.
Il mattino ci destinava delle scodelle bianche di ceramica pesante con dentro una specie di latte fatto con il latte in polvere degli aiuti economici americani postbellici all'Italia. Leggermente colorato di qualche surrogato di cacao.
A me faceva schifo. Per fortuna che la zia dai paesi dove faceva la maestra poteva acquistare delle uova fresche. E ogni mattina avevo il privilegio di avere un nuovo. da un forellino in cima facevo uscire nella tazza di latte da buttar via il bianco vischioso. Poi aprivo la corona del guscio, lo appoggiavo a mò di portauovo su un tovagliolo appositamente predisposto; ci mettevo dei pizzichi di sale; e tingevo nel rosso saporito dei frammenti di pane.
I ragazzi dell’ indigestione erano poi gli stessi che avevo in classe con me, in quinta elementare. Bocciati dalla scuola becera di allora che non riusciva a seguire anche tutti gli orfanelli, dovendo occuparsi di 35 - 40 alunni, avevano entrambi tre o quattro anni più di me. I grembiuli neri andavano loro stretti. Ed erano pure stretti per loro i banchi di legno. E certamente era scomodo stretto e assurdo quello che veniva raccontato loro. Il maestro, che aveva il privilegio di avere gli orfanelli goffi e ingombranti, era compensato dal poter ospitare i figli delle famiglie bene della città. Quelle che poi ogni tanto a Natale e Pasqua e per fine anno potevano mandare ricchi regali. Che naturalmente loro dicevano di non mandare più ma che incassavano come l'obolo e come il pedaggio feudale di quella scuola di classe.
I due grossi animaloni buoni, ma irrequieti, a un certo punto cominciavano a disturbare tra loro e con i compagni vicini. E non bastavano i ceffoni che il maestro giovane e ritenuto molto moderno e aperto dava loro. per cui ricordo che una volta chiamò uno dei ragazzini garbati ed eleganti figli delle classi ricche e gli diede l'incarico di accompagnarli in un'altra classe. Lì ci faceva la maestra la moglie del rettore. Quella che da benemerita aveva la casa per ex galeotti tra i quali sceglieva i migliori per farci da assistente. Donnettina piccola, decisa, ed estremamente dura, notabile democristiana, era riuscita addirittura a vantarsi di avere collaborato con la lotta partigiana.
In quella classe, frequentava mio fratello grande. Che poi mi raccontò tutto.
Dopo una decina di minuti i due ragazzoni erano tornati nella nostra aula piangenti, con le facce rosse gonfie.
La rigida educatrice, alzandosi sulle punte dei piedi aveva dato a ciascuno di loro 50 ceffoni sulla guancia!
Certo. Allora questa era la realtà.
Come per tutti coloro che hanno vissuto in istituzioni totali, manicomi, carceri, corrigendati, ospizi, tutti i miei compagni e anch'io per anni, dopo essere usciti da quelle bolge infernali, ci eravamo sentiti in colpa noi per quello che avevamo subito!
Vedi dunque, gioia, che è proprio vero quello che tu stai dicendo. Ho finalmente elaborato quel passato. L’ho rimasticato. Me ne sono liberato. Ecco perché tu puoi notare il tono distaccato con il quale te ne parlo.
Entrambi potevano immaginare meglio come fosse la vita nei centri di Identificazione per extracomunitari. Potevano immaginare come è l'inferno che domina intere desolate parti del nostro feroce pianeta.
La pipa ormai si era spenta.
I fantasmi del passato si erano dileguati, dopo essere rimasti sospesi a mezz'aria a provare ad incutere ancora terrore.
Ed era finalmente arrivato un clima dolce, morbido, rasserenato. La tenerezza partecipata di lei aveva dissipato quelle tenebre oscure.
E decisero quel punto di andarsene di là, per dirsi e regalarsi parole e cose più dolci.
Nanni Omodeo Zorini Qfwfq

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