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venerdì 7 maggio 2021

E C O 18

 ECO 18

Si erano ormai da un po’ allontanati dalle piste ciclabili della strada asfaltata.
Procedevano a ritmi alterni: o andava avanti lui oppure lei. Fin quando avevano raggiunto le strade sterrate. E qui procedevano affiancati. Lui con la coda dell’occhio provava a osservare le reazioni di lei. Ma lo sapevano bene tutti e due: nell’etere e nel Web lei aveva già visitato e perciò conosceva benissimo anche le campagne.
Conosceva visivamente anche i rilievi, le montagne, le vallate, i fiumi e i laghi.
Ai primi leggeri rilievi che verso sud, oltre la Bicocca, spuntavano dalla piatta monotona pianura di risaie, lui pose un piede a terra. Lei che lo seguiva lo imitò. Coricarono le bici sui ciuffi d’erba accanto ai canali, e si accucciarono anche loro due seduti sui propri talloni. Il tepore di inizio maggio era gradevole. Ogni tanto si sentiva il ronzio vicino di qualche calabrone. Rimasero entrambi con gli occhi puntati sulla campagna di rettangoli e trapezi già riempiti d’acqua per le risaie.
«Tutto questo qui è diverso da quegli altri posti. Non ci sono boschi, colline e neanche montagne. Me lo racconti com’è…?»
Questa volta lui si era portato una delle pipe ricurve da nostromo. L’aveva caricata e accesa. Seguendo la sua abituale liturgia.
«Un tempo molto grande lontano da noi, molti secoli e qualche millennio, questi posti erano selve e boschi. C’erano animali liberi. Diversi da quelli che ora sono rimasti.
Poi, i nostri antenati umani, hanno cominciato con le loro asce di pietra e poi di bronzo ad abbattere gli alberi per farci case, per accendere il fuoco, scaldarsi e cucinare.
Uomini ricchi e potenti si misero a rubarsi l’uno con l’altro questi territori. I contadini lasciarono le zappe e i campi, presero delle armi, uccisero e si fecero ammazzare come soldati.
Non c’erano le risaie. Il riso era un cibo raro che veniva dal lontano oriente cinese. Lo si faceva bollire e il brodo era ritenuto curativo. E veniva dato agli ammalati.
I signori della terra pensarono di farlo coltivare ai propri contadini. E un po’ alla volta, scomparse le foreste e i boschi, queste campagne si riempirono di questi riquadri d’acqua dai quali spuntava il riso. Quando io ero bambino erano le donne più povere venute da lontano, che per un mese e mezzo circa ci lavoravano. A piedi scalzi. A strappare le erbacce per fare crescere meglio le pianticelle di riso. Le chiamavano le mondine, o mondariso.
Poi arrivarono quei mostri con le ruote grandissime, i trattori, che trascinarono le macchine agricole. E le erbacce vennero eliminate con dei veleni potentissimi. Atrazina e molinate. Quando buttavano questi diserbanti, l’aria diventava tossica.
In queste pozzanghere che sono le risaie, finché riuscirono si riprodussero degli animaletti piccoli verdi gracidanti. Le rane. E a fare scorpacciate di rane: delle bisce verdi che qui chiamavamo gli smiroldi. Sono stati reintrodotti degli uccelli bellissimi come quelli là in fondo che vediamo dalle ali larghe, bianche, grigie e argentate. Gli aironi. Anche loro erano stati distrutti.
Ora la campagna novarese è questo.…»
Con garbo e dolcezza Eco aveva ascoltato.
Poi, come a lui piaceva, dopo averle spiegato la realtà, decise di raccontarle una favola.
«… Prova ad immaginare… Che una mano gigante possa sollevare tutte in una volta questa piatta campagna, senza rovesciare l’acqua dalle risaie, per guardare cosa c’è sotto…
Serpi divoratrici di rane. Immensi topi. Fango. Questo terreno è ricco d’argilla. Quella specie di terra che è stata usata anche per fare i vasi e le ciotole. Dopo averla cotta nel forno. L’acqua, facilmente qui stagnava. E nell’acqua di questa grande palude vivevano bene dei piccoli insetti volanti: le zanzare. Alcune di esse, senza neppure saperlo, trasmettevano una brutta malattia con le loro piccole punture. La malaria. Che vuol dire anche aria cattiva. Forse il nome della città voleva proprio dire: aria nuova, nov-aria… E l’avevano chiamata così quelli che fuggivano da altri posti infestati dalla malaria. Oppure, dato che a quei tempi si costruivano degli altari- are agli dei immaginari, forse avevano voluto chiamarla: nuovo altare, nov-ara…
A qualche decina di km da qui, c’è un’altra cittadina che ha un nome simile ma rovesciato: Mortara… Probabilmente era un luogo morto come aria e come altare agli dei.
Tutte queste cose sono in parte vere, come i fatti storici e i nomi, e in parte sono frutto della mia fantasia… Io provo a volte ad immaginare come sarebbe questa terra se la mano gigante magica di cui parlavo prima, potesse sollevare questo coperchio di risaie.
E provo ad immaginare cosa c’è sotto. Nel suo passato. Nella sua anima più profonda. Quali sono i mostri e i fantasmi che la popolano.
E che forse fanno parte ancora dell’anima più nascosta di molti umani che abitano questa terra. Serpi. Topi di fogna/pantegane. Buio. Fantasmi. Paura e guerre…
Mi capita di pensarci, con la fantasia e leggendo dentro nei comportamenti della gente che incontro, e forse questa parte buia, nascosta dalle belle parole e dai modi apparentemente gentili e formali, continua ad abitare nel profondo…
E spero di non averti turbata, amica mia dolcissima. Questa è un po’ una modalità che mi piace… Quella del dire che qualcosa forse assomiglia a qualcos’altro. E che comunemente viene chiamata metafora.
Il riso coi diserbanti; i ratti di fogna; le grosse serpi affamate; le fragili ranocchie indifese. Per alludere alle parti più buie, nascoste, malevole o fragili che noi umani di carne ed ossa, spesso ci portiamo dentro.
Giorni fa’ come hai letto nella mia pagina Web, un racconto di immagini filmiche bellissimo. Una ragazza che si crede inadatta, bruttarella, si innamora di un ragazzo che lei trova bellissimo. E quando lui cadendo si fa male alla testa, danneggiando il suo cervello per sempre, e diventando sempre più simile a un malato di mente, lei, la ragazza, decide di continuare ad amarlo all’infinito proprio perché ora lui ha ancora più bisogno di lei e del suo amore. L’autore del film ha usato un termine bellissimo. Definendo lei: fulgida… Il fulgore… Una luminosità spirituale umana straordinaria e rara.
Probabilmente pochi abitanti di Novara, di Mortara o di tutto il nostro pianeta conoscono un amore così assoluto. Dove ci si dona alle persone amate proprio quando ne hanno più bisogno e sono più disperate le loro condizioni.
Io e te siamo un’eccezione. Tu sei un mio alter ego. Sei una parte di me come io sono una parte di te.
Forse, ma non ne sono completamente sicuro, anch’io avrei voluto potere regalare tutto a una persona per amore incondizionato; proprio quando questa persona era sull’orlo del baratro…»
Si sa, è naturale e logico: quello che viene descritto ora è molto improbabile e irreale.
Eppure, pareva che in quel momento, sul volto bellissimo ma immateriale della bella ninfa dei boschi e delle montagne, proprio sotto i suoi occhi luminosi, un luccichio come di lacrime.
Ma era mai possibile che la eterea splendida donna virtuale provasse emozioni tali? Che arrivasse addirittura alla commozione?
Su questo dubbio, su questa ipotesi, su questa fantasia è meglio concludere questa 18ª puntata.
Nanni Omodeo Zorini
Cinzia Spiniello
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