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sabato 3 novembre 2018

UNA VITA AGRA, MA SOLO UN PO'

UNA VITA AGRA, MA SOLO UN PO'

UNA VITA AGRA, MA SOLO UN PO'

Beh, collochiamo la narrazione poco meno di sessant'anni fa.
Nel contesto già descritto stupendamente da Luciano Bianciardi.
Era arrivato  per vendicare 43 minatori morti nello scoppio. Ma nella città del “torracchione di vetro e cemento”, finisce per farsi fagocitare dalla città tentacolare. Dal suo continuo apparire anziché essere. Lì lo scopo fondamentale è scarpinare, fare polvere… E le donne inteccherite, sgomitano nei luoghi di lavoro, per arrivare…
I particolari e le sfumature sono cambiati. Il contesto, forse e un pochino anche il linguaggio. Ma fondamentalmente la città è quella. Metafora del tempo presente, oggi, quasi sessant'anni dopo di quando fu scritto LA VITA AGRA di Luciano Bianciardi.
D'altra parte è la sede della reggia del berlusconismo.
L'ambientazione scivola dalla metà del secolo scorso quasi ai giorni nostri.
Anche qui ed ora sono presenti molti migranti. Qualcuno addirittura si improvvisa garante degli altri. Addirittura da inventare la kermesse celebrativa del fenomeno.
In dialetto novarese c'è un termine abbastanza intraducibile: saraffo. Credo che stia ad indicare chi si arrangia e vive e sopravvive di espedienti.
"La città" emblematica può contenere di tutto. Ma in modo molto cangiante. Mutevole. Indefinibile.
Come il protagonista di quel romanzo, anch'io arrivo dalla provincia. Senza ambizioni così dinamitarde. Anzi. Spinto da afflato letterario e poetico, mi ritrovo con altre persone che affermano di nutrire la medesima passione.
Sono venuto per regalare affetto. Comprensione. Amore umano. Parole e versi.
Ma anche qui, anche loro hanno sfumature cangianti che non corrispondono a quella di me provinciale che arrivo.
Dabbene, ingenuo, fin troppo trasparente, addirittura sprovveduto. Finisco per farmi rubare il portafogli proprio nel cuore della città. Manca solo che qualcuno provi a vendermi il Duomo, come nei film di Totò.
La kermesse è pronta. Per una testimonianza. Mancano solo i testimoni. Passanti frettolosi, distratti, quasi sempre provenienti dall'estero. Scattano continuamente istantanee della basilica. E ovviamente si fanno gli autoscatti.
Non ci sono le donne inteccherite di Bianciardi. Ma l'aria e l'atmosfera che si respira, appena al di là dei turisti extraeuropei, è molto simile. Siamo nella patria del geniale inventore delle tv private. Dei suoi tacchi fasulli sotto le scarpe per apparire più alto. Dei capelli posticci trapiantati. Dell'apparecchio intercutaneo per simulare priapismi fasulli.
Anche qui si corre. Si scarpina. Si sorride. Si appare. Ma prima o poi la maschera di cera si scioglie. E dietro ci sono i volti nudi. Rare le persone autentiche. Che però nascondono questo loro carattere fisiognomico. Come un difetto. Una balbuzie.Una imperfezione. Un handicap da non mostrare per non subire aggressioni esterne. Per non farsi rubare anche loro il portafoglio della loro anima.
«Ma dopo questa carrellata a mò di lezione, che cosa mi stai raccontando, Ciccio?»
Io narratore parlante e ora scrivente, rimango interdetto un istante. In sur-place.
«Il saraffo di turno recita bene la sua parte. Vive di espedienti e lo sa fare molto bene. Ha ancora stampati nel DNA i segni lasciati da una realtà originaria. Vive la realtà, affermando criteri e principi di democrazia, anche se poi nei fatti è autoritario e dirigista. Con una corte nutrita di comparse. Il buffo personaggio loquace che ripete le parole e discorsi che fa da una vita. È la spalla operativa dell'operazione. Tutti lo conoscono. Ha contatti dovunque. È molto funzionale per gli agganci della kermesse. Ultima arrivata, sgomitante, la stria sgolgia. Una modesta streghetta che sa solo che vuole arrivare. Si è appiccicata addosso a me. Mi ossequia leccosa. Mostra una intimità e amicizia smisurata con me completamente fasulla. Anche lei recita una parte. Di una che non è niente e fa finta di essere qualcosa. Qualcuna. Cerca un palcoscenico.
Uno, nessuno, centomila…
Grande ambizione. Modesta cultura e intelligenza. Scaltrezza e passabile performance di apparire quello che non è.
Vedendola chiacchierona e pettegola le regalo come confidenza fatti immaginari della mia vita privata. Per metterla alla prova. Mostra di crederci. E successivamente mi metto a ridere raccontandole una versione totalmente diversa. Ogni volta trasecola. Ma non le interessa assolutamente quello che io le racconto.
Vuole a tutti costi entrare anche lei nel gioco. Essere col mio aiuto introdotta. Apparire in scena.
Quasi tutti fanno finta di apparire quello che non sono. Tranne quelli che si limitano a partecipare in modo discreto. Dignitoso. Quasi schivo.
Ma forse di loro pochi se ne accorgono»
Mi sta ascoltando attenta.
«Ma tu, Ciccio, cosa c’entri con questa gente qui della sceneggiata che mi hai descritto?  Sei l'unico pesce fuor d'acqua… L'unico ingenuo, spontaneo, trasparente, fin troppo… Addirittura sprovveduto, se non ti offendi. Vendi solo la merce che possiedi. Le tue parole. Il fascino che credi e che vuoi avere su tutti. Dopo la tua infanzia in cui ti sentivi uno scarafaggio. Vuoi risultare gradito. Piacere. Essere accettato. Ma rischi grosso. Lo capiranno?
Anzi , mi correggo, non tu ma il tuo personaggio.
Anche tu d'altra parte, fin qui, hai parlato in prima persona come se fossi tu il personaggio rappresentato e descritto»
Quando  parlo di narrazione, facilmente, in modo autobiografico, mi identifico non solo con il narratore lì contenuto, ma anche con il protagonista.
Di che pasta sono fatto io e anche lui, l'hanno probabilmente già capito. E forse proprio per questo li infastidisco. Decideranno di far a meno di me.
Come nella barzelletta della vignetta degli omini tutti verdi. Nella quale entra a un certo punto un omino tutto rosso. Viene guardato in cagnesco, finché lui aggiunge: "scusate io sono di un'altra barzelletta, quella di fianco  "…
«Hai ragione. Io attacco bottone e divento amico in tre secondi con chiunque sconosciuto, in metropolitana, al mercato, nei super negozi. Uomini o donne. Anziani o giovani. È la mia profonda fragilità. Presto se ne accorgono. Finiranno per fregarmi il portafogli.
Di questo qui bisogna liberarsene presto. Dicono.
Ci vuole solo qualche istante. Ad un anziano che fa il simpatico, può facilmente essere attribuito il ruolo di seduttore impenitente. Basta che qualcuna delle comparse femminili presenti in scena, dica che lui "ci ha provato"… Con un termine recente si chiama "l’ha molestata". In  termine più corrente: gliel’ha battuta…
La pantomima e la recita possono continuare tranquillamente senza di lui. Può essere sbattuto via come carta straccia.»

Mi fermo un istante a riflettere. La guardo negli occhi. Buoni, accoglienti, comprensivi.

«Ma questa tua storia che stai inventando ora, ambientandola a metà del secolo scorso, mi sembra proprio fuori del tempo. Anzi, meglio, senza tempo. Poteva succedere anche a fine ottocento.
O fra vent'anni.
Stai cercando di delineare un archetipo narrativo. Della città popolata di zombi. Dove chi è umano finisce per perdersi o restare solo. Nell'immenso condominio umano.
Mi fa quasi tenerezza, sai? Meno male che non sta succedendo per davvero, meno male che non succede a te, Ciccio!
Forse ti conviene non arrivare al finale.
Lo prevedo un po' triste e malinconico…
Comunque vedi tu, sei tu il narratore…»

Al finale non ci avevo pensato, ancora.
Più che un finale può essere una dimensione collocata prima e anche dopo rispetto alla pseudo vicenda narrata.
E certo mi assomiglia molto, è abbastanza adatta all'hom- salbadg che sono sempre stato, che mi sono sempre sentito. Un hom- salbadg, forse che farebbe meglio a imparare a dare meno confidenza, meno fiducia, a essere meno entusiasta ed ottimista…
Uno che vive la sua vita in dimensione di solitarietà.
Che si diverte a scrivere poesie.
Racconti.
Romanzi.
Pezzi  teatrali.
Sì. È proprio meglio che faccia così. L'episodio della città disumana della solitudine e dell'apparire, può risultare benissimo ed essere una divagazione.
La realtà vera è la dimensione del prima e del dopo.

«Grazie  Ciccio della collaborazione partecipata che mi dai. È proprio vero. I personaggi e le comparse che ho delineato sopra non esistono assolutamente.
Non sono mai esistiti.
Non possono e non devono esistere.
Sono anch'essi frutto di invenzione narrativa, fantastica, in un momento di parziale pessimismo.
D'altra parte, lo sai da sempre, a me piace molto giocare al "facevamo finta che…"
E allora, facevamo finta che la kermesse non c'è mai stata. E pure, facevamo finta che la kermesse c’è stata. Sono due possibili percorsi e diramazioni narrative. Arrivati a un certo punto della narrazione o della lettura, si può andare di qua per un percorso. Oppure scegliere l'altro, continuando la strada già delineata…
Narrare è un po' sognare, inventare, modificare il passato, il presente, e anche il futuro…
Mi auguro tanto, di esserne capace. Il demiurgo l'avrebbe fatto benissimo. Ma io mi sono limitato a ricevere l'appellativo leccoso e abbastanza ipocrita, di "maestro"…
D'altra parte da giovane ho fatto anche il maestro di scuola…»

Mi rendo conto che ho buttato giù un abbozzo di narrazione, come spesso mi capita, incompleto e incompiuto…
Provo a rivederlo.
Rileggerlo.
Farmelo leggere dal software di riconoscimento vocale.
E metterlo da parte.
Con buona pace del mio vecchio amico Luciano Bianciardi.
Della sua Vita Agra.
Della sua missione di vendetta dinamitarda rimasta incompiuta per sempre.

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