UNA
VITA AGRA, MA SOLO UN PO'
Beh,
collochiamo la narrazione poco meno di sessant'anni fa.
Nel
contesto già descritto stupendamente da Luciano Bianciardi.
Era
arrivato per vendicare 43 minatori morti
nello scoppio. Ma nella città del “torracchione
di vetro e cemento”, finisce per farsi fagocitare dalla città tentacolare. Dal
suo continuo apparire anziché essere. Lì lo scopo fondamentale è scarpinare,
fare polvere… E le donne inteccherite, sgomitano nei luoghi di lavoro, per
arrivare…
I
particolari e le sfumature sono cambiati. Il contesto, forse e un pochino anche
il linguaggio. Ma fondamentalmente la città è quella. Metafora del tempo
presente, oggi, quasi sessant'anni dopo di quando fu scritto LA VITA AGRA di
Luciano Bianciardi.
D'altra
parte è la sede della reggia del berlusconismo.
L'ambientazione
scivola dalla metà del secolo scorso quasi ai giorni nostri.
Anche
qui ed ora sono presenti molti migranti. Qualcuno addirittura si improvvisa
garante degli altri. Addirittura da inventare la kermesse celebrativa del fenomeno.
In
dialetto novarese c'è un termine abbastanza intraducibile: saraffo. Credo che
stia ad indicare chi si arrangia e vive e sopravvive di espedienti.
"La
città" emblematica può contenere di tutto. Ma in modo molto cangiante.
Mutevole. Indefinibile.
Come
il protagonista di quel romanzo, anch'io arrivo dalla provincia. Senza
ambizioni così dinamitarde. Anzi. Spinto da afflato letterario e poetico, mi
ritrovo con altre persone che affermano di nutrire la medesima passione.
Sono
venuto per regalare affetto. Comprensione. Amore umano. Parole e versi.
Ma
anche qui, anche loro hanno sfumature cangianti che non corrispondono a quella
di me provinciale che arrivo.
Dabbene,
ingenuo, fin troppo trasparente, addirittura sprovveduto. Finisco per farmi
rubare il portafogli proprio nel cuore della città. Manca solo che qualcuno
provi a vendermi il Duomo, come nei film di Totò.
La
kermesse è pronta. Per una testimonianza. Mancano solo i testimoni. Passanti
frettolosi, distratti, quasi sempre provenienti dall'estero. Scattano
continuamente istantanee della basilica. E ovviamente si fanno gli autoscatti.
Non
ci sono le donne inteccherite di Bianciardi. Ma l'aria e l'atmosfera che si
respira, appena al di là dei turisti extraeuropei, è molto simile. Siamo nella
patria del geniale inventore delle tv private. Dei suoi tacchi fasulli sotto le
scarpe per apparire più alto. Dei capelli posticci trapiantati.
Dell'apparecchio intercutaneo per simulare priapismi fasulli.
Anche
qui si corre. Si scarpina. Si sorride. Si appare. Ma prima o poi la maschera di
cera si scioglie. E dietro ci sono i volti nudi. Rare le persone autentiche.
Che però nascondono questo loro carattere fisiognomico. Come un difetto. Una balbuzie.Una
imperfezione. Un handicap da non mostrare per non subire aggressioni esterne.
Per non farsi rubare anche loro il portafoglio della loro anima.
«Ma
dopo questa carrellata a mò di lezione, che cosa mi stai raccontando, Ciccio?»
Io
narratore parlante e ora scrivente, rimango interdetto un istante. In
sur-place.
«Il
saraffo di turno recita bene la sua parte. Vive di espedienti e lo sa fare
molto bene. Ha ancora stampati nel DNA i segni lasciati da una realtà originaria.
Vive la realtà, affermando criteri e principi di democrazia, anche se poi nei
fatti è autoritario e dirigista. Con una corte nutrita di comparse. Il buffo
personaggio loquace che ripete le parole e discorsi che fa da una vita. È la
spalla operativa dell'operazione. Tutti lo conoscono. Ha contatti dovunque. È
molto funzionale per gli agganci della kermesse. Ultima arrivata, sgomitante,
la stria sgolgia. Una modesta streghetta che sa solo che vuole arrivare. Si è
appiccicata addosso a me. Mi ossequia leccosa. Mostra una intimità e amicizia
smisurata con me completamente fasulla. Anche lei recita una parte. Di una che
non è niente e fa finta di essere qualcosa. Qualcuna. Cerca un palcoscenico.
Uno,
nessuno, centomila…
Grande
ambizione. Modesta cultura e intelligenza. Scaltrezza e passabile performance
di apparire quello che non è.
Vedendola
chiacchierona e pettegola le regalo come confidenza fatti immaginari della mia
vita privata. Per metterla alla prova. Mostra di crederci. E successivamente mi
metto a ridere raccontandole una versione totalmente diversa. Ogni volta
trasecola. Ma non le interessa assolutamente quello che io le racconto.
Vuole
a tutti costi entrare anche lei nel gioco. Essere col mio aiuto introdotta.
Apparire in scena.
Quasi
tutti fanno finta di apparire quello che non sono. Tranne quelli che si
limitano a partecipare in modo discreto. Dignitoso. Quasi schivo.
Ma
forse di loro pochi se ne accorgono»
Mi
sta ascoltando attenta.
«Ma
tu, Ciccio, cosa c’entri con questa gente qui della sceneggiata che mi hai
descritto? Sei l'unico pesce fuor
d'acqua… L'unico ingenuo, spontaneo, trasparente, fin troppo… Addirittura
sprovveduto, se non ti offendi. Vendi solo la merce che possiedi. Le tue
parole. Il fascino che credi e che vuoi avere su tutti. Dopo la tua infanzia in
cui ti sentivi uno scarafaggio. Vuoi risultare gradito. Piacere. Essere
accettato. Ma rischi grosso. Lo capiranno?
Anzi ,
mi correggo, non tu ma il tuo personaggio.
Anche
tu d'altra parte, fin qui, hai parlato in prima persona come se fossi tu il
personaggio rappresentato e descritto»
Quando
parlo di narrazione, facilmente, in modo
autobiografico, mi identifico non solo con il narratore lì contenuto, ma anche
con il protagonista.
Di
che pasta sono fatto io e anche lui, l'hanno probabilmente già capito. E forse
proprio per questo li infastidisco. Decideranno di far a meno di me.
Come
nella barzelletta della vignetta degli omini tutti verdi. Nella quale entra a
un certo punto un omino tutto rosso. Viene guardato in cagnesco, finché lui
aggiunge: "scusate io sono di un'altra barzelletta, quella di fianco "…
«Hai
ragione. Io attacco bottone e divento amico in tre secondi con chiunque
sconosciuto, in metropolitana, al mercato, nei super negozi. Uomini o donne. Anziani
o giovani. È la mia profonda fragilità. Presto se ne accorgono. Finiranno per
fregarmi il portafogli.
Di questo
qui bisogna liberarsene presto. Dicono.
Ci
vuole solo qualche istante. Ad un anziano che fa il simpatico, può facilmente
essere attribuito il ruolo di seduttore impenitente. Basta che qualcuna delle
comparse femminili presenti in scena, dica che lui "ci ha provato"…
Con un termine recente si chiama "l’ha molestata". In termine più corrente: gliel’ha battuta…
La
pantomima e la recita possono continuare tranquillamente senza di lui. Può
essere sbattuto via come carta straccia.»
Mi
fermo un istante a riflettere. La guardo negli occhi. Buoni, accoglienti,
comprensivi.
«Ma
questa tua storia che stai inventando ora, ambientandola a metà del secolo
scorso, mi sembra proprio fuori del tempo. Anzi, meglio, senza tempo. Poteva
succedere anche a fine ottocento.
O fra
vent'anni.
Stai
cercando di delineare un archetipo narrativo. Della città popolata di zombi.
Dove chi è umano finisce per perdersi o restare solo. Nell'immenso condominio
umano.
Mi fa
quasi tenerezza, sai? Meno male che non sta succedendo per davvero, meno male
che non succede a te, Ciccio!
Forse
ti conviene non arrivare al finale.
Lo
prevedo un po' triste e malinconico…
Comunque
vedi tu, sei tu il narratore…»
Al
finale non ci avevo pensato, ancora.
Più
che un finale può essere una dimensione collocata prima e anche dopo rispetto alla
pseudo vicenda narrata.
E
certo mi assomiglia molto, è abbastanza adatta all'hom- salbadg che sono sempre
stato, che mi sono sempre sentito. Un hom- salbadg, forse che farebbe meglio a imparare
a dare meno confidenza, meno fiducia, a essere meno entusiasta ed ottimista…
Uno
che vive la sua vita in dimensione di solitarietà.
Che
si diverte a scrivere poesie.
Racconti.
Romanzi.
Pezzi
teatrali.
Sì. È
proprio meglio che faccia così. L'episodio della città disumana della
solitudine e dell'apparire, può risultare benissimo ed essere una divagazione.
La
realtà vera è la dimensione del prima e del dopo.
«Grazie
Ciccio della collaborazione partecipata
che mi dai. È proprio vero. I personaggi e le comparse che ho delineato sopra
non esistono assolutamente.
Non
sono mai esistiti.
Non
possono e non devono esistere.
Sono
anch'essi frutto di invenzione narrativa, fantastica, in un momento di parziale
pessimismo.
D'altra
parte, lo sai da sempre, a me piace molto giocare al "facevamo finta
che…"
E
allora, facevamo finta che la kermesse non c'è mai stata. E pure, facevamo
finta che la kermesse c’è stata. Sono due possibili percorsi e diramazioni
narrative. Arrivati a un certo punto della narrazione o della lettura, si può
andare di qua per un percorso. Oppure scegliere l'altro, continuando la strada
già delineata…
Narrare
è un po' sognare, inventare, modificare il passato, il presente, e anche il
futuro…
Mi
auguro tanto, di esserne capace. Il demiurgo l'avrebbe fatto benissimo. Ma io
mi sono limitato a ricevere l'appellativo leccoso e abbastanza ipocrita, di
"maestro"…
D'altra
parte da giovane ho fatto anche il maestro di scuola…»
Mi
rendo conto che ho buttato giù un abbozzo di narrazione, come spesso mi capita,
incompleto e incompiuto…
Provo
a rivederlo.
Rileggerlo.
Farmelo
leggere dal software di riconoscimento vocale.
E
metterlo da parte.
Con
buona pace del mio vecchio amico Luciano Bianciardi.
Della
sua Vita Agra.
Della
sua missione di vendetta dinamitarda rimasta incompiuta per sempre.
Nessun commento:
Posta un commento