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domenica 14 novembre 2021

ANCORA. Daccapo… rursus…

 ANCORA. Daccapo… rursus…

E comunque va detto, “per essere franchi”, “a onor del vero”… e pure al di fuori delle frasi fatte ricorrenti rituali…
Lo voglio pertanto ridire: il racconto continua.
Anche mutando etichetta, titolo o intestazione: io continuo.
È un ruscello che non si arresta. Riceve le piogge e i rigagnoli senza sosta dell’autunno invernale, del novembre grigio e nebbioso. Riceve linfa incessante dal rimuginare continuo, senza sosta, del ricorrente borborigmo , del mescolare giorni, tracce, frammenti dispersi nell’etere senza origine mai del tempo.
C’aveva provato, con merito per la ricerca, quel Sigismondo di Vienna. Convincendo ai suoi algoritmi sulla materia onirica.
Il flusso, forse, invece, rimescola insieme di continuo disparati, casuali, occasionali briciole e macigni adagiati alla rinfusa tra i millantamila neuroni.
Ma non fa niente.
Nel flusso di coscienza incessante, la “buzza” portata a valle dai rivoli infiniti. Colando giù da tutte le cime e i pianori. E poi rimasticarla, ruminando, senza sosta.
Pertanto, ricomincio proprio da qui.
«Vedi, era tornato a volo, da una ombrosa Torino ancestrale. A dare il la, l’abbrivio, la stura, senza motivo particolare o precedenza sul resto, il commiato; mormorato a mezza voce; della partenza verso le ombre totali.
Non chiedermi perché. O chi. Te ne prego. Non avrebbe né senso né scopo.
Diciamo che è così e basta.
Con la moto scooter, se vuoi. O vagando a piedi.
Ripartenza, pur senza essersi mai fermati per davvero.
E lo dico a te, e a tutte le altre e gli altri. Che avete compiacenza di ascoltare. Di leggere.
Mi pare di ricordare che una volta nella parlata del Verbano la chiamavano “buzza”. Tronchi, rami, fogliame ormai macerato, frammenti legnosi che un tempo erano stati materia vivente.
E quella recata nell’ultima tornata onirica notturna mi parlava anche di quel commiato.
Ma anche d’altro, ed altro all’infinito.
Nel “battiburro” di parole, per dirla con Samuel Beckett. “cascando. perché no semplicemente la deprecata occasione della effusione verbale? “
Commiati. Partenze. Incontri. Ritrovamenti. Sorprese. Delusioni. Euforie…
A me le mie.
A ciascuno le proprie…
Congedata l’ultima zattera galleggiante di legname a frammenti colata e calata nelle acque dei miei monti ancestrali.
A pescarci dentro significati. Foto immagini. Odorose reminiscenze e profumi. Sensazioni e brividi remoti ma sempre vivi rinascono.
Di quella volta che…
Ma anche di quell’altra…
Di tutte quelle altre volte…
E sempre cascando giù dai gorghi impetuosi dell’Ossola e di tutte le Ossole del pianeta.
Giustappunto, allora.
Gli incontrarsi. E i perdersi. E i ritrovarsi… Insomma tutte quelle cose lì…
Sul bordo della sera.
Quando il tramonto rimane una vaga aspettativa.
Un annuncio rinviato di continuo.
Ma imminente, certo, come no…
Tic e tac. Faceva di continuo nella sua carcassa di latta verniciata di nero, il vecchio orologio appeso alla parete. Con le lancette delle ore e dei minuti come vere frecce e lance disegnate di maniera.
Tic e tac.
Come aveva ticchettato cent’anni prima. Tra quelle antiche mura. Nella cucina del padre di mio padre.
Solo, ora, con voce più bolsa, estenuata, allo stremo.
Non so che fine abbia fatto, con il suo motore a molla, da ricaricare ogni giorno.
Ma allora il tempo si misurava così.
E c’erano poi le campane. A martellare ore, mezz’ore e anche quarti. Spazio tempo sullo stesso foglio di gomma.
Mi fa risentire, di nuovo, ancora, sempre il suo garbato insistente ticchettio.
E anche il tamburellare sotto lo sterno nella gabbia toracica, nella sua fibrillazione atriale, il vecchio cuore mai stanco. Eppure assai affannato.
Sotto sguardi freddi e insensibili delle vie di Novara e di altri altrovi.
O lancinati dall’occhio tremante di desiderio e d’attesa. Di speranza. Di profferta. Di regalo gratuito sine die.
Quante volte ormai, ma quante ma quante ma quante. Impossibili ormai da contarle.
Tuffo al cuore, ogni volta, daccapo. “Rursus”.
Incontri freschi, nuovi, nascenti. Nuovi a perdere.
E da ritrovare oggi qui, mentre cala il tappeto di buzza e fa coltre e mantello al Verbano. E lo fa pure al Cusio…
Basta immergerci le mani. E ritrovare significati. Odori. Immagini. Fotogrammi. Amplessi e carezze.
“Lazzaro, veni foras” proviamo a balbettare anche noi come il rabbi.
Risvegliatevi. Muovete gesti. Suonate parole. Anche voi, nel teatro dei pupi, ripetendo in moviola quel che è stato. Che è pur stato, sì: ma continua ad essere ancora e non cessa mai.
Peregrini neuronali impulsi. Negli infiniti flussi. Vivi e pure spenti.
Mai sazi.
Ho sognato anche te, lo sai? E anche te, e anche te, e anche voi tutte… E ho tremato, di euforia, di piacere, e talvolta anche di delusa amarezza.
Mi dirai, ora, stupita e attonita: ma che dici? Vaneggi?
Che il vaneggiare è l’andare tra cose vane. Ma queste, vane non sono per nulla. Reminiscenze, tracce, indizi, cicatrici, residuali, ma non meno vere. Per quanto attenuate. Assopite.
Riprendiamo il viaggiare.
Su barche.
Canotti.
Zattere.
Maxi scooter rombanti.
Droni immensi come dischi volanti.
Certo.
Dammi la mano allora.
Metti da parte, allontana, smorza ferite, dolori lancinanti e quant’altro.
Dammi la mano. Andiamo che è tempo.»
Lei, la lei di quel tempo, e di sempre, guardava perplessa, stupita il suo anfitrione bizzarro, entusiasta, boccheggiante, fuori di testa…
Il monologo soliloquio indossava il costume da colloquio e la maschera dei fescennini e dell’atellana … teatrale scena nella sua perenne coazione a ripetere.
E i pupi, posate le daghe ricurve, lanciavano di nuovo frizzi, mottetti, profferte amorose e lacrime.
Ma sempre.
All’infinito.
Ermanna Scroppo e Maria Teresa Grano
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