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venerdì 31 luglio 2020

PRAGA , MAGIA e altre cosette

31.07/2017 )
PRAGA , MAGIA e altre cosette
Non so assolutamente dire con certezza, ora, se l'avevo poi regalata intenzionalmente, oppure se mi ero lasciato convincere a concedergliela visto che già l'aveva in casa.

La poltrona a dondolo di bamboo.
Si trattava di uno dei miei acquisti del tempo in cui mi ero messo a vivere da solo in quello strano appartamentino, che avevo arredato con oggetti di fortuna. Avevo acquistato da un rigattiere due armadi guardaroba, piccini, che dovevano essere della fine dell'ottocento. Uno aveva delle decorazioni in rilievo abbastanza graziose per quanto deteriorate. L'altro era di legno un po' più pregiato, o quanto meno più massiccio e pesante. Li avevo sverniciati con una spazzola di saggina e con la soda caustica. Con le mani protette dagli appositi guanti antiacido. Si erano bevuti interi barattoli di cera d'api e avevano acquistato un aspetto abbastanza gradevole. In cucina un forno con il piano cottura, risalente alla prima metà del novecento. Discretamente funzionante. In un micro stanzetta che chiamavo sontuosamente sala da pranzo ma che non usavo mai avevo collocato la cassapanca d'angolo, che ospitava sotto il sedile tutte le mie scorte alimentari. Le sedie impagliate. Il tavolo con le borchie di ferro battuto. E un buffet dello stesso stile. Il tutto in un legno cosparso di macchie scure. Il cirmolo, che ama conservare e ostentare i nodi. Nella camera una rete metallica matrimoniale con un materasso a molle molto comodo. E nella sala, studio e salotto insieme una brandina con un materasso che fungeva da divano turca, coperto di cuscinoni, e di tessuti indiani stampati.
Il tavolo me l'ero costruito io con due cavalletti ai quali avevo appoggiato tre robuste assi molto spesse di abete, che avevo inchiavardate insieme per farle diventare un pezzo solo.
Una stufa a gas bastava per tutto l'appartamentino perché tutte le stanze erano comunicanti l'una con l'altra…
Faceva sfoggio di sé insieme ad alcuni mobiletti di giunco di bambù cinesi, una robusta sedia a dondolo di bambù. La tenevo sempre ricoperta anch’essa con dei cuscinoni. Ed era proprio su quella che ora mi stavo dondolando piacevolmente.
Il ricordo è vivissimo: dell' appartamentino, dal parquet a pelo corto che avevo installato da solo… E in mezzo troneggia nel mio ricordo la dondolo di bambù… Quella che certamente avevo poi ceduto o regalato liberandomene definitivamente anche se ci ero affezionato.
E usavo dondolarmici, tenendo i piedi sollevati e le gambe appoggiate alla sedia del tavolo studio. A quel tavolo al quale mi mettevo a scrivere molte ore al giorno.
Avevo dovuto di colpo con un soprassalto arrestare il mio dondolio perché proprio in quel momento aveva sentito suonare il campanello.
Prima che la mettessi un po' posto la casa non possedeva assolutamente un gingillo sonoro del genere. L'avevo installato io e ne andavo fiero. Anche se ogni volta, benché molto raramente, appena lo sentivo suonare, il cuore mi balzava in gola per la sorpresa, il piacere, il timore di essere disturbato o scocciato.
A malincuore ma con una certa curiosità, deposi la pipa nel piccolo contenitore di rame battuto che mi ero portato dall'Iran anni prima e che fungeva da portacenere, e a piedi scalzi, sentendo piacevolmente sotto la pianta dei piedi la moquette, mi accostai alla porta.
Si era agghindata in modo molto vistoso per quanto attraente. Indossava un vestito cinese, a girocollo, che le scendeva fino ai piedi calzati da sandali indiani. Teneva i capelli biondi raccolti a crocchia sul capo. Gli occhi erano truccati all'inverosimile in modo molto vistoso.
E in mezzo ad essi il suo sguardo meraviglioso e insieme allucinato e folle mi guardava saltando di qua e di là.
"Senti, scusami, se ti capito così all'improvviso qui… Ma ero di passaggio… Ti devo dire una cosa e spero che ti piaccia altrimenti dimmelo subito e mandami a cagare…"
Aveva parlato tutto d'un fiato, mentre lo sguardo dardeggiava e fiammeggiava instabile come fiammelle di candele.
Assolutamente improbabile che fosse di passaggio, poiché abitava dall'altra parte della città, e per di più con quell'abbigliamento e così truccata.
Da qualche giorno infatti non si faceva vedere. Io non l'avevo cercata. E lei neppure per stare sulle sue.
Stranamente per il mio carattere, rimasi abbastanza tranquillo a guardarla meravigliato e la lasciai parlare. Aveva il fiato corto. Aveva fatto le rampe delle scale salendo i gradini a due a due. E per di più aveva pedalato per tutta la città sulla sua vecchia bicicletta.
Accostai la porta e gli fece segno di accomodarsi.
Quasi per un'intuizione, occupò il posto che avevo lasciato io ancora caldo sui cuscinoni della sedia a dondolo di bambù.
Rimase un po' zitta guardandosi in giro con occhi veloci. Spesse volte in quelle situazioni mi era piombata lì sospettosa, gelosa, curiosa… Temeva, o forse addirittura sperava di sorprendermi con qualche altra donna. E voleva di nuovo sedurmi, affascinarmi, possedermi.
Altre volte forse gliel'avevo lasciato fare. Ma quel giorno preferii sentire che cosa voleva raccontarmi.
Una sua amica ancora più bella e affascinante di lei era di origine ceca. Abitava accanto a lei. Ed era in quel periodo una sua confidente e complice. Aveva organizzato una sua puntata a Praga. Per rivedere la madre. Sarebbe stata probabilmente inseguita dal suo amante ammiratore italiano. Ci teneva moltissimo che la mia visitatrice un po' esagitata in quel momento ci andasse magari portandosi il suo amico.
La stetti ad ascoltare tranquillo.
"Ma per Praga occorre il passaporto. Il mio è scaduto. E appena l'avrò rinnovato ci vorrà il visto e dovrò andare al consolato a Roma. Tu invece sei già a posto?"
Non si aspettava forse la mia prontezza di spirito, ma già ci aveva pensato.
In breve ci accordammo. Poi preferii stare al gioco delle sue parole che mi aveva detto che era venuta solo una corsa di sfuggita e che era molto di premura.
In pochi giorni ebbi il documento in mano. E un mattino prestissimo dopo una notte di temporale che aveva rinfrescato il tempo estivo, partii per Roma.
Non ricordo per quale motivo ma preferii fare il percorso a piedi. Probabilmente era più funzionale rispetto ai mezzi pubblici.
Il cielo era azzurro intenso. Il sole non aveva ancora incominciato infuocare l'aria. Per strada mi imbattei in una fontana d'acqua freschissima e ne bevi abbondantemente. Ho sempre amato l'acqua fresca, specie se zampillante quando ho davvero sete.
Avremmo fatto il viaggio in treno. Né io né lei avevamo intenzione di spendere troppo denaro per le cuccette. Riuscimmo a dormire molto scomodamente in uno scompartimento nel quale ci stavamo solamente noi due più una terza persona. Le poltrone erano di quelle in cui il sedile scorre in avanti e lo schienale scende formando una specie di lettuccio. Lei si era collocata di fianco al finestrino e io accanto a lei.
Nella notte sentii le sue mani nervose frugare il mio corpo in tutti modi licenziosamente.
Dopo diversi cambi di treni, ed esserci affacciati ai finestrini per vedere scorrere paesaggi montani con ancora macchie di neve, arrivammo a destinazione.
Io ero particolarmente cotto. Lei riusciva con la sua frenesia nervosa che le zampillava dagli occhi esagitati a mostrarsi perfettamente sveglia e vitale.
L'amica ci aspettava alla stazione. Parlando animatamente fitto fitto tra loro arrivammo a una zona di Praga dove sorgevano immensi grattacieli abbastanza brutti.
La zona e il quartiere erano brutti da vedere.
Salimmo con l'ascensore rumoroso un'infinità di piani. L'appartamento era praticamente un locale unico. Al pavimento una moquette rasata molto rudimentale. Due immensi cuscini di gommapiuma sovrapposti l'uno sull'altro erano la base di un divano. E per la notte sarebbero stati stesi a terra a far da letto. Di spalle accostato al muro ce ne stava un altro in piedi a far da schienale. In un bugigattolo, sollevato da terra diverse decine di centimetri una cabina doccia chiusa in mezzo alla stanzina.
Celato da qualche mobiletto sovrapposto un angolo cottura.
Avrebbe ceduto a noi due quel suo tesoro di appartamentino. E sarebbe andata ospite per qualche giorno dalla madre che abitava in una zona molto più vecchia in un palazzo antico, in un miniappartamento ricavato sezionando un precedente elegante appartamento.
Si scambiarono tra loro gli ultimi accordi. Poi potemmo disporre del tempo per riposarci, farci una doccia in quello strano apparecchio vetrato sospeso.
Nei giorni successivi cercai in un supermercato accanto al condominio. Stavano facendo l'inventario come spesso avveniva nei paesi socialisti di allora. A fatica riuscì a trovare degli ingredienti con i quali mettere insieme alla bell'e meglio l'occorrente per fare una paniscia novarese. Ma molto alla bell'e meglio!
La bellissima praghese italianizzata e la di lei madre una ballerina classica che ora s'occupava di far la maestra di danza trovarono il mio piatto favoloso. Ma a me faceva letteralmente schifo.
Seguendo le indicazioni di una guida che mi ero procurato prima di partire potei visitare con la mia compagna qualche cosa.
Percorremmo qualche volta il ponte Carlo, assaggiammo della birra di malto nella zona del castello, scorgemmo la casa di Kafka. curiosammo Mala Strana, la Torre dell'Orologio, la piazza dove il giovane Jan Palak si era tolto la vita protestando contro l'invasione sovietica, anche se facevano siepe al sito figure in divisa dallo sguardo becero…
Ma, come sempre a me è piaciuto fare, gustai moltissimo perdermi in zone particolari, ubriacandomi di ingressi, facciate, sontuose tettoie di ferro battuto il vetro, del liberty…
Viaggiammo probabilmente un po' anche in metropolitana. Ricordo che mi fece una bella impressione ma non mi sono rimasti dei particolari.
Una sera, rapidamente, brevemente preannunciata solo la mattina, l'amica ceca ci aveva riservato una sorpresa molto affascinante.
Non avevo portato abiti particolarmente eleganti. Non l'avevo previsto. Indossai un paio dignitoso di jeans e una camicia chiara. La mia compagna indossò l'abito cinese col quale mi aveva affascinato annunciandomi il viaggio.
In una zona periferica di Praga, venimmo accompagnati con l'auto dall'amica locale.
Una palazzina fine ottocento o inizi secolo scorso. Il portone rigorosamente chiuso. Dovette suonare diverse volte prima che si affacciasse un maggiordomo elegantissimo.
Lei ci spiegò che non avrebbe parlato la lingua locale come già aveva fatto prenotando al telefono, ma aveva parlato in inglese: gli stranieri erano ben accetti perché avrebbero pagato in dollari o in marchi tedeschi. I connazionali non erano molto graditi.
Un immenso salone con lampadari sontuosi di cristallo di Boemia che pendevano dal soffitto altissimo.
Mobilio di noce scuro lucidato molto elegante, da museo.
Candelabri immensi in cui bruciavano gigantesche candele.
Una grande tavola rotonda già pronta, imbandita, con tovaglie finissime ricamate. Anche lì candelabri e candele accese.
Il personale di servizio era elegantissimo molto compassato e costituiva addirittura un esercito.
Dietro ciascuno di noi stava un cameriere immobile, guanti bianchi, pronto a passarci la posata giusta, a rabboccare il bicchiere di vino… Probabilmente esperto ed allenato in lettura del pensiero, cercava di prevenire e interpretare qualsiasi nostro pur minimo desiderio.
Sorvolo sui particolari…
Ricordo quando ci venne servito del caviale sovietico. Con i suoi piccoli ovoidi dorati, da spalmare delicatamente sul pane tostato con o sena il burro. Il gusto salato e intenso alla bocca.
E infine, non senza una certa delusione, assaggiai lo champagne russo…
Lo trovai decisamente inferiore oltre che all'omonimo francese che cercava di copiare, ma anche a qualsiasi brut nostrano. Senz'altro non era degno dei brut Ferrari, del Muller Turgau, ma neanche del Carta Nevada spagnolo.
In compenso, almeno il caviale, gioco forza, non poteva che essere autentico e buono. Gli storioni vengono proprio da quelle parti e al massimo dal Mar Caspio.
Le candele, le luci tremolanti, i camerieri devoti, servili e insieme anche raffinati, la tavola imbandita, l'arredo riservato a privilegiate élite in quel paese ancora formalmente e ufficialmente con l'etichetta di paese socialista…
Erano decisamente stridenti i miniappartamenti spartani di cemento, insieme ai supermercati con perenne esaurimento delle merci, ricorrente epidemico inventario generale, da un lato. E dall'altro lo sfarzo della palazzina e della cena principesca e baronale, riservata alle élite di potere economico sotterraneo o di partito.
Pagando in dollari ce la cavammo con una miseria, molto meno di quello che pagavamo da noi in pizzeria.
Il ritorno fu probabilmente molto mesto. Senz'altro lo compimmo in treno. Ma non riesco a ritrovare immagini e fotografie mentali.
Nella mia casina di allora al ritorno, trovai quiete, e tempo di riflessione per mettere a fuoco i ricordi, allora recenti, per conservarli ora e raccontarli…
La casina stessa comunque non c'è più.
E non c'è più nemmeno la sedia a dondolo di robusto bambù.
O meglio, c'è, ma soltanto nel mio album di fotografie mentali.
Molto più sfocata ancora l’immagine della mia amica di allora.
Finisce per confondersi nei particolari e per auto annullarsi.

Nanni Omodeo Zorini Qfwfq

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