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mercoledì 18 agosto 2021

IL GIARDINO DELLE PAROLE

 IL GIARDINO DELLE PAROLE

C’aveva cominciato molti anni prima. In tanti modi a dir la verità.
Il cortile dia muri alti sbeccati si era riempito di verde e di colore. Arricchito fin troppo della cenere di legno del camino lasciata negli angoli. Che la pioggia ogni volta dilavava e il terreno ingordo beveva. Un vecchio pruno selvatico, germinato dai noccioli buttati per caso, aveva preso il vezzo di regalare catinate e cesti di frutti gialli, oblunghi, succosi e aspri di sapore. Poi il cortile aveva deciso di trasformarsi. Chissà da dove e come un banano aveva iniziato ad ergersi. Prima con un fusto minuto tutto raccolto. Poi sempre più alto, immenso, dominante. Il suo rizoma, come un grosso serpente boa aveva preso a viaggiare tutto intorno al muro alto. Buttando fuori, qua e là altri banani. E altri e altri ancora. Il clima protetto raccoglieva i raggi del sole e faceva fermentare la vita.
Ribes. More. Una spina… Quest’ultima, era diventata la sua prediletta. Con quel suo gusto nel succo. Aromatico, aspro e pungente. Appena i frutti smettevano di essere bozzoli di vita e diventare cicciotti e a gonfiarsi, scoppiavano e si aprivano. Delizie di formiche vagabonde e solerti. Appena si ricordava riportava zuppiere e cesti di frutti all’ombra della sala. Sul tavolo sotto il soppalco in libreria. Di fronte al camino tardo settecento. Dal disegno barocco. Quell’ombra gustava la protezione delle travi a vista del soffitto a cassettoni. In quei cassettoni vetusti, nell’intercapedine di ghiaia ocra del torrente Arbogna, ci avevano fatto la casa e la tana vespe immense. Arrampicato su scalette poggiate sul tavolo, improvvido equilibrista, le aveva fatte sloggiare con bombolette di spray insetticida. Un’azione brutale. Necessaria però.
Fuori, il cortile giardino continuava regalare quel che poteva. Cioè tutto praticamente. L’alloro e il rosmarino, rigogliosi donavano gli aromi per la cucina. Accanto alla salvia.
Le cicorie. Arrampicati a cercare il sole verso l’alto i frutti purpurei del pomodoro.
Poi, la vecchia casa, eterno cantiere in perenne ristrutturazione, era stata alienata.
Fino a quando, piccino piccino, al sesto piano del condominio, nuova abitazione, il terrazzo aveva cominciato a colmarsi di cassoni di terra. E il gioco era ricominciato.
Il salice piangente. Che il torrido di certe estati ogni volta cercava di bruciare. Bastava potare i magri e lunghi rami seccati, e ne spuntavano di giovani.
Di nuovo, anche qui, ribes, una spina, piccoli ciliegi e l’amarena. Cespugli di rosa rossa e di quella rosata. Le cicorie, all’inizio morbide e tenere, diventavano cespugli amari, duri, coperti di peluria. D’estate ci veniva parcheggiato anche il limone. Sul suo grosso vaso a rotelle. In un angolo, svettavano verso il cielo un gruppo di fusti di bambù.
Giardini del passato… Giardini del presente e dell’oggi.
Succo d’aglio nell’acqua era stato spruzzato al tempo della invasione della Popilia iaponica.
Giardinaggio verde. Colorito a volte di fiori e di frutti.
Ma intanto, dal tempo dell’infanzia, su fogliettini vergati con stilografiche che perdevano inchiostro annerendo le mani, aveva preso abitudine parallela, un altro giardino.
Nascosto. Segreto. Occultato.
Era fatto di parole. Di lettere. Di fonemi. Di frasi. Di ritmi danzanti. Di fantasie e di sogni.
Non aveva avuto bisogno di coltivarlo intenzionalmente. Di seminare. Innestare. Irrorare.
Era nato spontaneo come il pruno della casa antica. Il seme era stata la valanga di letture. E, si sa, una parola tira l’altra. Come con le ciliegie. Come coi sogni. Come con gli amori e con le donne.
I cesti di parole e di versi aveva cominciato a regalarli a bizzeffe dovunque. Nell’etere. Nel web. Sullo stupido social delle ciance e dei pettegolezzi. Degli appelli accorati in difesa dei tapini. E delle vittime brutali di ogni genere.
Era nato così quel nuovo giardino di parole. Nelle tasche di ragazzo sui foglietti. Nei quaderni neri dei diari intimi. Nelle lettere appassionate d’amore. Nei racconti lunghi e brevi. Nei versi. Che avevano imparato a diventare adulti. Perdendo un po’ alla volta le rime, la metrica, le cadenze da filastrocca.
E alla fine, con un’ultima potatura le sequele di parole avevano perso anche le maiuscole. Qua e là, sfoltiti anche delle ridondanti congiunzioni e degli articoli. Che cercavano di essere essenziali. Scarni. Alleggeriti del superfluo.
Senza un attimo di tregua. Col fiato in gola. Flussi di coscienza continui. E via, e via, e via…
Un giardino sui generis. Sopravviveva e sopravanzava quello del passato, nella vecchia avita casa. E quell’altro che perdurava amato e coccolato pensile in mansarda.
Frutti. Foglie. Fiori. Suoni. Colori. Odori e profumi.
Il nerbo forte: le emozioni e il sentire.
Ogni frammento alludeva a qualcos’altro. Di vicino di lontano. Di presente. Di passato e di passato remoto.
I germogli uscivano spontanei. Qualche piccola potatura qua e là.
Frutti e vegetazione e fiori e odori e colori da regalare.
Con quello scrivere che diventava un intenso, appassionato, fluente atto d’amore.
Giardiniere di parole.
Nel flusso di coscienza, nel dialogo continuo, contro la devastante deforestazione del mondo intorno, il giardiniere, indefesso continuava a regalare.
Mirava con occhio attento e mai stanco l’universo che pullulava dovunque.
Coccolava, baciava, leccava gli infiniti amori che gli erano stati regalati. E che non smetteva di regalarsi di continuo.
Sguardi e occhi luminosi e raggianti che gli facevano compagnia. Corpi flessuosi, morbidi, dall’incarnato che aveva gustato saporosamente. Fiati . Inflessioni di voci. Sapori di labbra. Profumo remoto di corpi femminili vivi e palpitanti. Odore di capelli. Fragranza di inguini. Amaro di abbandoni inferti e subiti.
Nel giardino delle parole danzavano pulsanti.
Forse è anche vero che conoscere e ricordare.
Ma conoscere e anche carezzare, gustare, bere, assaggiare.
Insaziabile.
Dopo le amarene, le carnose ciliegie vignola, le ferrovia… Poi il ribes, l’uva spina… Le roselline colorite. Il carnoso e per nulla aspro giallo del limone. L’odore di verde.
E dopo quel volto, quel sorriso, quell’amplesso, quell’orgasmo, quegli altri ancora. E poi quegli altri e quegli altri fino a questo qua.
Senza nostalgie. Rimpianti. Solo qualche saudade.
A cogliere l’attimo fuggente, prima che fugga per davvero per sempre.
Tutto qui. Tutto e niente. Quel che c’è stato è stato. Quel che c’è finché c’è. E poi, magari, quel che può esserci oggi domani o anche dopo.
E andarlo a cercare nel dovunque diffuso. Con ogni mezzo. La cabrio aperta al vento. Il bolide rombante del maxiscooter. Nel volo da far invidia agli aironi, agli ibis, alle rondini e al falco pellegrino.
L’amore dell’oggi intorbida e annebbia quelli del passato.
Finché la stagione si offre propizia.
Finché il presente non si stanca, non si stufa, non si addormenta addosso.
Ma sempre un giardino. Di frutti. Di verde. E della rosa incarnata prediletta.
Tutto qui, insomma.
Diluite, dilavate, dalle piogge del tempo, anche le lacrime passate. Quando ci sono state.
Aggrappati qui, in questa realtà qui, “donec virenti canizie abest” dicevamo un tempo. Aggrappati anche all’attuale canizie. Innamorati della vita.
Nanni Omodeo Zorini
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