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martedì 7 aprile 2020

FUORI DAL TUNNEL

FUORI DAL TUNNEL
Anche lui l’aveva appreso così.
Dai banditori che lo urlavano ai quattro venti.
Mentre tutti facevano orecchie da mercante. "Ma va là… Cosa vuoi che sia… Ogni tanto ne sparano qualcuna grossa così… Vedrai che si risolve in un niente… In una bolla di sapone…"
Ma l'aveva già letto sui libri del tempo. Dalle parole dei saggi. Dagli vaticini più neri.
«È stata distrutta la grande madre… Ferita a morte… Pugnalata con stiletti avvelenati… E lei si ribella…
Stufa di essere calpestata dai rettili verdastri; di essere violentata dalle brutali carneficine; dei loro piccoli cervelli…
L'aveva già fatto nel mesozoico: con l'aiuto del provvidenziale meteorite si era raffreddata di polveri infinite. Fin quando nuovi viventi che allattavano portarono all'evoluzione il carnefice erectus impropriamente poi vestito da sapiens…
Miliardi di volte più piccoli dei sauri pachidermi, ecco ora piccoli granelli di polvere di esistenza, neppure vivi né buoni a riprodursi, a far pulizia degli umani così disumani e stupidi…»
E se ne stava lì, sulla riva del tempo.
Dove tutto era già previsto e lui sperava rinviato sine die.
Era tutti insieme ed era anche nessuno.
Raccontava le storie e i versi.
Giocava a fare il demiurgo e a inventare il reale.
E ci giocava sognandolo.
Guardandolo e facendolo vivere come se esistesse davvero…
In cima alla collina, lui il mago demiurgo lo sapeva: un fiore di rosa color incarnato, se ne stava da lungo tempo rannicchiata. Frutto di una storia che non aveva inventato lui. Ma che era successa è capitata così. Da se stessa. E sembrava irrimediabile. Ferita nella sua carne e nei suoi sensi da pugnalate più grandi di lei. E temeva il peggio.
Mentre gli infinitesimamente piccoli mostri e fantasmi divoravano il pianeta.
Lei soffriva già di suo. Sempre più rannicchiata. E chiedeva al suo maestro mago demiurgo:
"ti prego… ti supplico… mio narratore che mi hai costruita e inventata… salva questo tuo androide femmina…salva i miei giorni e il bianco incarnato della mia pelle… salva i miei petali… fammi rifiorire… sono la tua nini… ridammi vita e rigore… donami la resurrezione pasquale… non aspettare ancora altro tempo… ti supplico per amore…
ti prometto di regalarti il mio canto di sirena incantata… gli squittii allegri che soli ti mandano in deliquio… il profumo del mio corpo di ragazza e di donna… per il tuo piacere infinito…"
Sornione, col suo sguardo atteggiato a mago maestro demiurgo, lui aveva atteso finora.
Poi, piano piano, aveva pizzicato le corde della sua cetra.
Tamburellando con le dita sui legni che tendevano i fili.
E da un basso borborigmo lentamente aveva fatto uscire le parole.
Usando con sapienza la propria lingua magica aveva leccato il tempo e le ferite. Aveva detto le cose…
"A lungo l'alba ha stentato a sorgere.
Ha tardato il vento d'aprile a levarsi tiepido risvegliando gli steli e i germogli. Dovunque la grande madre soffriva gli spasmi del grande male che la stava affliggendo.
I piccoli demoni volando sui fiati umidi hanno percorso ogni angolo del globo.
Fin quando i sapienti hanno usato il cervello.
Studiandosi di porre rimedio e cercando panacee e antidoti.
Gli eredi umani del pitecantropo sono stati devastati da quest'altra pestilenza.
Proveranno tutti, forse, a reinventare la terra.
A inventare un gioco nuovo di vivere.
A mescolare meglio anima e mente.
Emozioni e saggezza.
Amore pervasivo e dolci sorrisi diffusi.
Tu attendi ancora un istante ti prego.
Mia creatura.
Mia leggiadra favola.
Ricomponi i petali del tuo bocciolo.
Ritempra la tua anima e la tua carne bianca.
Mia bambina.
Mia donna.
Mio prototipo eccelso di Nexus-6.
Ancora un poco e sarà maturo il tempo.
Ti verrò a prendere.
Sollevandoti in alto verso il cielo.
Reggendoti nelle mie braccia di legno antico.
Sta per riprendere la nostra fiaba infinita.
È scritto così, e l'ho scritto io credimi.
Tornerà il tempo dei lamponi e dell'uva spina.
Dei mirtilli e delle amarene succose e rosse.
E insieme faremo una merenda infinita nutrendoci l'un l'altro.
Divorerò l'incarnato morbido di cui ti vesti nuda.
Potrai bere la mia anima e aggrapparti al mio tronco.
I miei rami invaderanno la panna montata del tuo corpo colore di rosa.
E le canzoni voleranno come farfalle incantate.
Nei gorgheggi estatici del piacere infinito.
Intanto prepàrati.
Non indossare vestiti di seta, dorati o monili preziosi d'oro.
Indossa il tuo vestito color aria, colore di vento, profumato come l'aprile..."
Le reti intanto della sapienza medica laboriose tendevano maglie finissime per imbrigliare i feroci mostriciattoli venefici.
Nelle strade del pianeta rari umani attoniti e spaventati si aggiravano a fare provviste. Bardati con mascherine per cercare di filtrare il più possibile gli aerosol micidiali.
Il tempo però, non ancora pronto, stava cercando di maturare.
In cima al suo giardino minuscolo tra il profumo intenso di salvia, rosmarino e menta, sulla sua sdraio di bambù e telo di cotone color latte, sornione, col suo sguardo atteggiato a mago maestro demiurgo, lui attendeva ancora.
Poi, piano piano, pizzicando le corde della sua cetra.
Tamburellando con le dita sui legni che tendevano i fili.
Dal basso borborigmo lentamente che aveva fatto uscire le parole, ora regalava il suo silenzio.
Un silenzio che era attesa.
Un'attesa che era speranza.
Una speranza che era rinascita.
Resurrezione.
Pasqua dell'anima.
Il volto angelico dell'androide umano femmina aveva chiuso gli occhi di cielo.
E un sorriso disteso le stava regalando un sogno che era promessa.
Previsione.
Annuncio.
Ed entrò in un sogno bellissimo.
Dove non era lei sola.
Il suo corpo bianco come la luna visse fremiti intensi.
Al mattino si sarebbe svegliata di nuovo umida d'amore.
Senza nulla indosso.
Sola sotto il piumone.
Ancora caldo della presenza onirica notturna che l'aveva abitato.

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