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lunedì 5 aprile 2021

 ECO 13

“Questa senz’altro non puoi averla letta perché non l’ho mai ancora scritta.
È una storia un po’ vuota e amara.
Prendila pure così.
In quel periodo ignaro di problemi che stavano per sorgere e incombevano, avevo un discreto benessere economico e vitale. Mi divertivo con la coupé metallizzata e nera. Quasi inutile, ma era un oggetto da ostentare.
Oltre alla scuola media insegnavo anche in altri corsi privati per arrotondare lo stipendio.
Ed era venuta l’estate.
Senza un motivo particolare.
Senza niente di eccezionale.
Se non che mi ero deciso a farmi un paio di settimane al mare.
Purtroppo sull’Adriatico.
Il vicedirettore del campeggio stabile e fisso, sul retro della orribile nave fascista della colonia di Rimini, aveva insistito.
Un residuo brutto da vedere, dell’architettura fascista della gioventù italiana del littorio. L’ente associazione che lo gestiva aveva modificato la sigla: da G.I.L., era diventata G.I. togliendo il littorio sia dalla denominazione, come pure dalla orribile facciata di cemento grigio…
Dove si vedeva ancora scrostata l’effigie del fascio.
Un mare piatto.
Di acqua e sabbia all’infinito.
Senza dover istallare la tenda.
E con il servizio mensa per la ristorazione abbastanza economico.
Ero partito prestissimo all’alba.
Chi avevo invitato a venire con me, all’ultimo momento, si era voluto portare un amico che conoscevo solo di vista.
La cosa era abbastanza fastidiosa: la mia Appia coupé, di cui andavo fiero, carrozzata pininfarina, era una 2 + 2…
Il terzo viaggiatore avrebbe dovuto starsene di dietro rannicchiato con le gambe e le ginocchia in bocca.
Forse per questo feci tutto il viaggio abbastanza imbronciato.
Una tirata unica.
Trovai sistemazione in una delle infinite tende già allestite e montate.
Che avevano già pronti dei lettucci a castello.
Non ce n’erano per starci da soli come singoli.
Il malumore finì comunque per svanire.
Il primo giorno, nella mensa, dato che me ne giravo da solo per gustare liberamente il mio tempo, appena mi sedetti con il mio vassoio del pasto, fui raggiunto da una giovane donna.
Sorrise e fece che sedersi lì.
Attaccò bottone.
Doveva aver individuato il mio coupé, perché me lo disse subito.
E mi chiese poi se la portavo a fare un giro.
Nelle mie, ancora limitate a quel tempo relazioni femminili, era la prima volta che venivo abbordato da una donna.
L’aspetto era abbastanza gradevole.
Come il suo corpo quando me lo offerse.
Mi disse che dove lavorava era abituata a fare così.
Sotto il camice spesso non indossava neppure la biancheria intima.
Ed era abituata a regalare il suo corpo ai medici.
Mi disturbava però un pochino la modalità. Già allora il ruolo maschile ancora diffuso e consolidato vedeva la concorrenza di quello femminile. Una giovane donna, per conto suo, autonoma, disinibita e spigliata, mi stava corteggiando.
Niente da eccepire. Se non che io, allora, prima, e anche dopo sempre avevo preferito possibilmente intrattenermi piacevolmente con donne che avevo scelto io.
La fanciulla, senza alcuna reticenza, dopo avere pranzato con me e aver fatto un giro in auto, mi invitò ad andare nella sua tenda. Giacque completamente spoglia.
E mi regalò ciò che io neppure le avevo chiesto.
Anche oggi, io faccio distinzione tra due termini comunque diffusi: scopare e fare l’amore. Non solo dal punto di vista linguistico!
Quella bella ragazza voleva scoparmi.
Il grosso transatlantico di cemento che era stato colonia fascista, e ospitava al piano terra il refettorio/mensa, dava un profondo senso di vuoto e di squallore.
Non molto allegro il panorama delle immense distese di sabbia, con gli ombrelloni allineati, le sdraio, una popolazione immensa in costume…
E il bagnasciuga che pullulava di sagome di persone che camminavano sulla sabbia con le gambe a mollo.
Per nuotare come piaceva a me fui costretto ad andare molto al largo…
Nelle tende, probabilmente di provenienza militare come il colore e l’aspetto dimostravano, faceva un caldo terribile.
Gli ex gerarchi della associazione fascista, in gran parte riciclati come gestori di queste strutture, non avevano avuto l’idea furba di sistemare l’accampamento di tende preferibilmente sotto gli alberi all’ombra.
Sembrava di essere in un campo militare.
I pasti erano apprezzabili e passabili.
Niente di eccezionale o di straordinario: dei primi alternati poi a dei secondi spesso di pesce o con cotolette, bevande e frutta.
Ero già stato probabilmente diverse volte all’Isola del Giglio.
Con gli amici che frequentavo al bar sotto i portici della mia città.
Il mare era mare.
Il blu intenso e i fondali di rocce, di alghe, ricchi di pesci e di molluschi.
Gli amici disponevano di un grande gommone a otto posti, e di un catamarano a vela ma con il supporto di un piccolo motorino.
Io indossavo la maschera col boccaglio. Delle lunghe e flessuose pinne.
Quando andavamo al largo restava in acqua molto tempo a guardare curiosare scrutare. Mi ero inutilmente procurato anche un fucile ad aria compressa: che per fortuna non usai mai perché i pesci che incontravo mi facevano tenerezza, e probabilmente mi guardavano implorandomi di lasciarli stare.
Anche al Giglio il sole era rovente.
Però era un autentico luogo di mare.
A Rimini, il profumo e odore della salsedine erano sopraffatti da quello delle rosticcerie, pizzerie, e oli solari.
Un mare diverso cioè.
Finii per perdere di vista definitivamente la ragazza che aveva voluto scoparmi.
Probabilmente feci nuove conoscenze.
Con le quali mi intrattenni.
Ma non furono degne di nota: perché non ricordo né volti né particolari né voci…
Mi dispiace cara Eco, che questo racconto sia frammisto di vuoto e di malinconia.
Di insoddisfazione.
In confronto a quegli altri miei che tu hai trovato nel mio blog, nel Web e nel mio computer.
Altrove, certamente, riuscivo a ricordare anche episodi non gioiosi o entusiasmanti, ma senza questa amarezza e questo senso profondo di vuoto, di insulso tirare a campare per due settimane.
Alla mensa.
Alla mega spiaggia galattica trasudante musichette di radioline portatili.
O alla sera in qualche locale con altre musiche che non conoscevo che non mi piacevano e che mi davano solo fastidio.”
La donna virtuale, alter ego del narratore di questa storia, lo aveva ascoltato, con attenzione, premurosa e compiacente. Ma nel suo sguardo traspariva la mestizia di questa vicenda abbastanza amara, vuota…
“Grazie.
Anche questo frammento fa parte del tuo vissuto. In compenso, con l’andare dei tuoi anni che io non ho vissuto, hai imparato a farti un’abitudine del tuo vivere solitario.
Già altre volte mi hai spiegato cosa intendi con la differenza tra “solitudine” e “solitarietà”.
Molto spesso rifuggi dalle masse, dalle chiacchiere inconcludenti, dai rumori e dai suoni inutili.
Ma lo fai per libera tua scelta.
Ami stare solo con te stesso.
Con le poche selezionate preziose persone che apprezzi e che ti apprezzano.
E con quella parte di te stesso che sono io…
Non chiacchieri a vuoto con la gente. Preferisci seguire il tuo dialogo interiore, il tuo flusso di coscienza.
Tranne quando, ispirato casualmente o magicamente, attacchi briga con sconosciute e sconosciuti. E dopo pochi istanti sia a te che a loro pare addirittura che vi conosciate da sempre.
Situazioni e persone che ti ispirano.
Con le quali nasce un feeling spontaneo. Che non sai spiegarti neppure tu.
Ma che ti va bene.
Che ti fa bene.
Ora che hai completato questa narrazione, la sistemerai nello stipetto della tua mente, del tuo tablet e del tuo computer.
Insieme agli altri racconti.
Narrazioni.
Memorie.
Versi.
Ti ringrazio comunque che quando componi poesie e versi, giochi coi suoni delle parole, con le assonanze, e non fai anche tu come gli stupidotti buontemponi di paese le filastrocche in rima , che a te ricordano quando leggevi il Corriere dei Piccoli, e le tiritere del signor Bonaventura…
Io ho gradito ascoltarti.
Tu pure hai gradito raccontare.
Io pendo dalle tue labbra.
Non sono come quelle persone che mostrano di ascoltarti solo per compiacenza.
E ti dicono poi magari continuamente che parli troppo e che sei logorroico.
Come spesso ti capita di dire: ci sono persone che parlano pochissimo quando non c’è niente da dire; e ci sono persone che parlano tanto quando hanno tanto da dire e questo tanto è pieno di significati.
Altre, purtroppo, non dicono niente perché non hanno niente da dire…
Oppure parlano perché si usa fare così, perché lo fanno tutti, e perché così si riempiono d’aria la bocca e basta…
Io sto imparando da te.
Ti dico solo cose che sono significative e che ritengo essenziali.
Altrimenti, e vedo che tu lo gradisci e ne sei contento, rimango zitta…”
E per un po’ di tempo riuscirono entrambi a gustare il suono flautato e melodioso del silenzio che aleggiava e volava intorno a loro.
Nanni Omodeo Zorini
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