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domenica 17 ottobre 2021

A RITROSO…

 A RITROSO…

Salgo la rampa dello scivolo dal box sotterraneo.
Gli pneumatici nuovi fanno presa bene sulle strisce zigrinate del cemento.
Non c’è rischio di perdere l’equilibrio.
Basta accelerare con calma e stando rilassati.
Clic col telecomando. Il cancello si apre cigolando.
Svolto a destra. E poi via…
Sì, già, lo raccontavo ieri sera nella videotelefonata.
Di quando…
Mille e millanta anni fa…
C’era ancora il babbo.
La topolino con quel suo colore che ora sarebbe improbabile, blu petrolio.
C’è una vecchia foto in bianco e nero: il babbo accucciato guarda in macchina. Si è messo in posa per la foto. Infatti ha su la giacca, la camicia bianca e la cravatta. Nell’androne che faceva da garage.
Ha uno sguardo intenso, luminoso, intelligente.
Sfumano nella mente immagini sfocate dell’alluvione del '46.
E poi rivedo l’auto color petrolio.
Ha avuto un guasto.
Dalla cascina hanno mandato quell’immenso gigante del cavallo da tiro Saturno.
Avanza lentamente.
Trainando la piccola automobilina, lusso riservato di chi se lo poteva permettere, allora, nei primissimi anni del dopoguerra.
Tutto qui.
Ci deve essere forse la bruma.
Aria umida e fredda.
Non rivedo quel volto e neppure la sua barba e i suoi occhi.
Ma ne sento la presenza calda. Rassicurante. Viva ancora.
Dopo il devastante funerale di massa, il carro coi pennacchi neri, trainato anch’esso, allora, dai cavalli.
Nella stessa bruma, sotto lo stesso cielo grigio e mesto: passerò l’inverno da quei lontani pro cugini.
Col vuoto di quell’assenza colossale, indescrivibile, impronunciabile.
Coi miei capelli lunghi inanellati in boccoli.
All’asilo delle suore addirittura mi chiamavano “bambina”. Lui, il babbo ingegnere, mi aveva detto di dare calci negli stinchi a destra e a manca.
Però poi ci parlava lui con la sagoma immensa e nera della suora madre superiora.
Alla cascina mi ero portato solo i boccoli biondo scuro.
Lui mancava: ma neppure osavo o potevo pensarci.
Quella specie di cugino.
Parlava solo il dialetto grasso della Lomellina.
A tavola mi faceva i dispetti. Tipo: guarda che vola l’asino… E appena mi giravo la sua forchetta rubava una fetta di salame dal mio piatto. Salame cotto.
E ci restavo male, ma tanto.
Alla cascina i primi giochi amorosi.
Il bambino bellino di città, circuito dalla ragazzetta prepubere. Portato a giocare i giochi proibiti tra le forre, nella buca immensa che avrebbe ospitato il ghiaccio per la ghiacciaia di paglia.
Dietro la tettoia del porticato.
Alzava la gonnellina.
E mi mostrava il paradiso segreto.
Guardare.
Sfiorare stordito e ammaliato.
Senza dirlo a nessuno, però.
La corte di fango e pozzanghere, dove razzolava il pollame. A volte ci passavano anche i cavalli condotti per la cavezza. Una volta, addirittura, il toro che doveva essere “sanato”, con una giacchetta che gli avevano attaccato sopra le corna per nascondergli la vista. Poi l’avevano catturato. E obbligato a diventare bove.
La bambina dal pube bianchissimo offriva quelle sue labbra verticali mandandomi in estasi.
Le serate, a far notte davanti al braciere dei tizzoni tolti dalla cucina economica, recitando il rosario. In quella lingua magica, musicale, sconosciuta, incomprensibile.
La brace residua collocata nello scaldino del “prete/monaca” scaldava le lenzuola ghiacciate e umide.
La notte era ancora più umida e fredda del giorno.
Mentre ora vado al rombo del mio sonoro Honda, a raggiungere la mesta, grigia, squallida dimora delle ossa defunte.
Sfiorerò soltanto, di sfuggita, le presenze di allora. Il pro cugino che mi rubava le fette di salame caldo. Sua sorella zitella e materna che mi faceva il bagno con l’acqua calda nella tinozza di stagno zincato.
E altri. Altri ancora.
Al babbo e alla mamma dirò questo e quest’altro. Giocando a immaginare loro risposte. Loro promesse. Rassicurazioni fredde, volute, desiderate, vaticini…
Prima di questa curva, rivedo il pro cugino molti anni dopo.
In un’altra cascina. Immensa. Ci lavora dall’alba fino a notte. Mentre pranziamo, in quell’unica visita pasquale, lui sta attardandosi fuori ancora con le sue bestie.
I suoi ci hanno cucinato dei ravioli freschissimi. Fatti in casa. Hanno appena ammazzato il maiale.
Zuppiere immense bianche.
Nella vasta squallida disadorna cucina.
Sul tavolo di legno.
Con sopra la cerata.
Lui arriva che abbiamo già finito da un pezzo.
Si toglie il cappello mostrando la fronte e il capo bianchi, che continuano nel volto abbronzato e cotto dal sole.
Afferra la zuppiera galattica dei ravioli. E ci affonda direttamente la forchetta e il capo, divorando.
Versandosi abbondanti bicchieri di vino rosso aspro.
Poi ci mostrerà il suo squallido regno.
Le bestie. La stalla col suo odore intenso di letame e di piscio.
E ci spiega che alle bestie bisogna dare non solo l’erba secca, l’acqua ma anche quella che lui chiama in dialetto la "pietanza".
Le mani rozze prendono delle grosse rape e bietole, le passano su una taglierina che le sminuzza facendole a piccole fette.
Poi ci mette dell’altro, forse. Non ricordo. Comunque prepara la pietanza per le sue bestie.
La "bonomiana" regalia democristiana offre ai coltivatori diretti, i "perdapé", prestiti colossali, senza nessuna documentazione. A tassi agevolati che più non sarebbe possibile: 2 , 3 × 1000…
Il cugino dalla fronte bianca e dal volto cotto dal sole non sa cosa farne. Ma li prende.
Magari ci compra le prime macchine agricole. E poi li investe. Racconterà poi, alla zia nostra, che ha un sacco di appartamenti dovunque. Di qua di là. Da tutte le parti.
Lui e gli altri saranno certo fedeli a quel governo amico.
E intanto prepara la pietanza per le vacche.
Ma il troppo lavoro gli ha fatto trascurare e dimenticare di guardarsi un po’ intorno. Magari si sarà sfogato come fanno le bestie con qualche donna a pagamento.
Poi, contatti e collaborazioni tra parroci di paesi lontani, gli troveranno una moglie.
Aveva provato a chiedere aiuto a nostra zia. Ma i contatti che lei gli aveva proposto non lo soddisfacevano.
Questa è troppo grassa. Brava ragazza, sì, ma troppo grassa.
Quest’altra pure, mi piace molto, però questa è magra. Troppo magra.
Ne parlava come delle sue manze e manzette.
Le pesava mentalmente.
Con la bilancia bascula.
Al cimitero del paese lomellino, non passo mai a cercare lui e i suoi in fondo a quei cunicoli corridori bui e odorosi di morte.
Ma seguo il ricordo della cascina di quel tempo.
Fra poco sono arrivato.
La moto la fermo qui. Fissata sul cavalletto centrale, che ho alzato salendoci con il piede con tutto il mio peso.
Aggancio il casco. Tiro fuori dal bauletto i lunghi ceri rossi.
Se compaiono immagini di santi, papi o madonne sulla scorza purpurea di plastica, magari le gratto via con le unghie.
Il gigantesco stallone Saturno sta ancora tirando, con i suoi zoccoli immensi ricoperti di peli come calzettoni di calciatori di una volta. Arranca possente. E la piccola auto scura si lascia trascinare silenziosa verso quella cascina del passato.
I vecchi proprietari terrieri davano in affitto le loro proprietà a chi le coltivava. Fittavoli. Divenuti poi mezzadri. Ingrassati e arricchiti dai prestiti bancari democristiani.
Il cugino dopo le prime volte non si era fatto più fregare da loro.
Aveva accumulato valanghe di soldi.
Da mettere in banca. Da comprarci appartamenti, che sono un investimento e una ricchezza.
Anch’io ho investito, ma non a scopo di lucro, nei miei ricordi. Nella mia infanzia. Nella mia desolata condizione di bambino di famiglia bene. Che non lo era più.
E mi ero lasciato tagliare i boccoli biondo scuro. Avevo giocato a piedi scalzi per anni nei cortili dell’Istituto.
E la sera, prima di addormentarmi, mi conciliavo il sonno a raccontarmi le cose. Da solo. Nella camerata. E tante volte era tornata a farmi compagnia, nostalgia, languore e tenerezza, con la sua gonnellina alzata e il suo pube proibito lubrico, la bambina, dallo sguardo che rideva. Porcellino e scandaloso.
Raramente la corsa furente del toro da castrare era tornata a visitarmi.
E neppure l’urlo umano disperato dei verri e delle scrofe assassinati per farci salami. Lardo. Sanguinacci.
Però la bambina l’accoglievo volentieri.
E a volte nei sogni, quando compariva di nuovo con il suo frutto, prezioso allo sguardo, mi si chiudevano gli occhi.
Non riuscivo a tenerli aperti.
Troppo bella era la visione.
Leziosa, lubrica, trasgressiva ptosi onirica.
Le candele le accendo. Ne metto una qui e una là. Quest’altra la regalo al babbo.
Mi rimetto il casco.
Nelle stradine tutte a curve, tra i pioppi e i fossi, oltre i quali distese di mais e di riso già tagliato. Le stoppie, gli avanzi della produzione agricola, come le rape, vanno a fare da pietanza ai pascoli del ricordo…
Nanni Omodeo Zorini
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