TU NE
QUESIERIS
Era
un luogo comune vecchio come il mondo. Lo si diceva da un'eternità. Una nonna
molti anni prima diceva nel suo dialetto della bassa novarese: “A s’po' pù fè
la vita… cum a ‘su temp” (= non si può più far la vita e vivere con questo
tempo, che cambia sempre).
Ma
lei lo diceva per consolarsi. Nessuno parlava mai con lei e così si sfogava
parlando del tempo.
E
tanto poi non riusciva neanche ad ascoltare le risposte, perché era sorda come
una campana.
Eppure
c'era qualcosa che cambiava radicalmente. Mutamenti climatici. Sguardo diverso
verso la realtà da parte di molte persone. Disperazione non ancora rassegnata
verso le brutture che riemergevano dal passato buio. Rabbia mormorata a mezza
voce.
E
anche il tempo stesso e le stagioni brontolavano tra loro.
«Non
per sembrare banale, ma io che sono l'estate cominciò stufarmi un po' di questo
caldo, incostante, instabile, alternato a improvvisi freddi che mordono le
ossa.
Mi
ero abituata per vezzo che un po' alla volta, dopo i primi tepori di fine marzo
e di aprile, con maggio cominciavo a riscaldarmi tutta. Poi giugno apriva le
porte al sole e all'afa, che a luglio e in parte ad agosto avrebbero dominato
sovrane. Alternate da scrosci di temporali… Insomma una cosa normale.
Ma
ora, sarà per le previsioni metereologiche che viaggiano nell'etere e negli
organi di informazione degli umani, sarà per le aspettative sempre più incerte
e incostanti, sarà anche per qualcos'altro… Penso anch'io in modo abbastanza
serio che quella nonna con quella sua frase che veniva dalle risaie, dicesse
davvero la verità.
In
pieno luglio, oggi che è il 21, se mi guardo avanti o delle prospettive molto
incerte.
Verrà
davvero l'autunno, quello "con le conchiglie e i monti aggruppati"
come diceva il poeta umano Federico Garcia, oppure c'è rischio che l'abbiano
soppresso e annullato?
E
come diceva quell'altro poeta chiamato l'etrusco, quest'autunno lo sentiremo
venire nel vento d'agosto e nelle piogge di settembre, torrenziali e piangenti,
quando un brivido percorrerà la terra, che allora muta e triste accoglierà un
sole smarrito?
Dove
andremo mai a finire noi, stagioni della vita e del tempo? Ed è lecito forse,
almeno a noi, stagioni, domandarci che destino ci abbiano riservato gli dei
dell'Olimpo?
E
sento, già mentre ne parlo, uno scoramento sottile. Un tremore dell'anima.
Anima stagionale, certo. Ma che sa tremare di fronte all'ignoto. Quali giorni
ci riserverà il futuro?
E non
basta lamentarsi dicendo che il futuro non è più quello di una volta. Certo,
logico naturale.
Vedo,
masse di umani fuggire dalle terre distrutte e devastate che furono dei loro
avi.
Cercando
un avvenire che reiteratamente e brutalmente viene loro negato.
Pronti
ad affogare con tutta la loro speranza nell'amaro salato del mare.
E
queste emozioni, si contagiano agli altri umani. Quelli più delicati sensibili.
Quelli che scrivono versi e poesie. Che scrutano l'orizzonte confrontandolo con
il passato. Che provano a riunirsi indossando magliette rosse e tenendosi tutti
per mano, mentre intorno l'indifferenza galleggia sovrana.
Solo
i poeti dunque riescono davvero a sentire quello che io, millenaria stagione del
tempo caldo, oso soltanto abbozzare?
Che
tempo verrà dato, come clima anche emotivo, spirituale, mentale, dell'anima, a
questo pianeta malato di plastica, alle sue piante, ai suoi animali, ai suoi
ghiacciai liquefatti, agli unici umani coscienti della catastrofe che a passi
lenti e inesorabili si avvicina?»
E il
parlottare che la stagione calda faceva si diffondeva tutto intorno.
In
qualche parte del pianeta, forse un anziano poeta canuto, guardava da lontano
la bellezza leggiadra della sua musa che l'aveva incantato. E le chiedeva,
forse, accorato, se almeno lei sapesse, almeno in quel momento, dove stava
rotolando tutta l'esistenza.
Aveva
intravisto, gustato, assaporato con passione golosa, la bellezza estrema,
radicata eppure fuggevole. Gliene era rimasto il gusto ancora nella bocca. Il
profumo fragrante nelle nari non voleva andarsene. Non poteva andarsene. E
assolutamente non doveva andarsene… Altrimenti l'avrebbe scritto nei suoi versi
gioiosi e amari insieme.
Versi
che dedicava alla bellezza femminile sovrana che colmava il suo cuore.
Perché
i poeti hanno l'anima molto sensibile. Come chi li legge e li ama.
E
voleva ancora invitare, di nuovo, all'infinito, cantori di versi, uniti insieme
agli amici in ascolto, brandendo la coppa dorata con cui brindare all'anima,
perché tutti insieme, almeno loro, provassero a cambiare il mondo davvero!
Un
coro grande. Una danza inarrestabile. Contagiosa e sfrenata. Per dare il la
alla continua rinnovata resurrezione della speranza.
E
forse allora quel poeta, muoveva i suoi passi antichi, con lo sguardo e il
pensiero proteso, per la meta che si era prefisso e aveva scelto.
E
vedeva, lontana e limpida come il sogno, come la speranza, come la passione,
come l'amore, la bellezza sublime femminea che gli aveva incantato il cuore.
In disparte, carezzando i
propri lunghi capelli verdi come rami di salice piangente, la stagione estiva
lo guardava con la coda dell'occhio. Intenerita. E provò una dolcezza estrema.
È in quell'occhio brillarono frammenti di lacrime di speranza.
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