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giovedì 9 settembre 2021

… MO, T’AL DIC ME…

 






… MO, T’AL DIC MI… “(= Ma sì, te lo dico proprio io…)

 Dalla stradetta si entrava nel cortile. Impregnato dell’acre odore di urina di gatto.     (Non poteva neanche ospitare amici o ammiratrici, tanto la bicocca era squallida. Una volta forse si era dovuto accontentare di farne ospitare una nel bedenbrecfast lì vicino.Non sempre quella là glielo faceva notare. Talmente ci era abituata.    Anche i panni che lei stendeva lì nel cortile lì ne assumevano il lezzo. Qualche volta riusciva a convincerlo a fare degli spruzzi di acqua con la canna. Più che altro a mezze battute.    Dialogo scarso in casa. All’osteria lì vicina del tiro di schioppo, invece, bastava un sorso di prosecco e diventava loquace. Battute del suo repertorio abituale. Smorfie con le quali aveva sempre saputo far ridere tutti.   O almeno glielo lasciavano credere. Si toccavano il gomito quando lo vedevano avvicinarsi a pedalata assistita.              Insieme alla piccola buffa e goffa macchinetta di colore vermiglio, erano state l’investimento della buonuscita. Liquidazione. L’avevano liquidato. Per la nuova professione esclusiva di clown di paese.    All’osteria gli si stipavano intorno. Provocandolo.     E dopo il primo sorso, lui si tergeva con le dita della mano i baffi. E attaccava.       La peluria sul volto gli dava un’aria meno squallida di quella che aveva sempre avuto.    L’ometto.    Gliel’aveva consigliato di farla crescere.       E lui addirittura finiva per sentirsi bello.

Nel pubblico dei bevitori ridenti, risuonavano varie parlate. Quella locale abbastanza insignificante. Varie parlate del sud. E la sua cadenzata teneva banco.

“… Dài…” e lo chiamavano per nome… “… Contaci ancora quella là di quel tale che…”      E giù a ridere, prima ancora di averla sentita, per abitudine…     A casa, solo i gatti lo consideravano.      Neanche quella che stendeva i panni e lo invitava con gli sguardi a lavare dal cortile il puzzo di piscio. Li a casa era proprio un nulla.

Ma all’osteria…!  Aveva imparicchiato a fare degli accordi sulla tastiera.     Che accompagnava con una vocetta tenorile stonata e un po’ fessa.        Oltre alle cazzate per far ridere, si lasciava andare a discorsi impegnati.          Per stare al gioco del ruolo che gli avevano attribuito di intellettuale del paese.   Lui si accontentava, ma sapeva benissimo i propri limiti.       Alle feste di paese, quel paese li o quelli vicini quando lo invitavano, qualche sorso di bianco… E poi si sentiva un dio in terra. Contento lui. Le consumazioni comunque le pagava sempre. Non lasciava mai un conto in sospeso.      Da quando era stato liquidato, aveva girovagato in lungo e in largo.  A piedi, a pedalata assistita, con la macchinetta rossa. Non gli sembrava vero. Non dover più andare a quel lavoro che lui riteneva così importante, ma nel quale era solo una comparsa e contava come il due di picche.   Nel suo paese d’origine, aveva saputo che il sindaco aveva fatto acquistare dall’amministrazione comunale delle bici a pedalata assistita, per i non autosufficienti nel movimento. E allora non aveva saputo resistere: con tutti i bei soldini della liquidazione!     Alle feste di paese e nei suoi giri di qua e di là, si guardava intorno quasi fosse un cazzo e mezzo. E per l’effetto del bicchiere si sentiva piacevolmente inondato di sguardi. Soprattutto sognava e desiderava quelli di donne. Vecchie, giovani, di mezza età. Si consolava abbastanza. Era una rivalsa contro quelle che lo avevano trattato sempre come una merdaccia.

“… MO, T’AL DIC MI… “Era il suo intercalare preferito. Per segnare il terreno. Identificarsi rispetto a tutti gli altri e le altre che stavano intorno.     Non voleva dir niente. Però faceva ridere.   Raramente, forse gli era anche successo, che qualche povera tapina, facesse mostra di trovare attraente e affascinante la sua parlata, la sua barbetta che l’aveva convinto a farsi crescere. E lui ci credeva. Però, anche se abituato a cercare di attrarre attenzione nel suo uditorio specie femminile, era profondamente timido e impacciato. E quella rara tapina disperata, doveva mostrarsi insistente, al limite della decenza e della sfacciataggine.   Lui faceva lo scemo: ma non credeva assolutamente di poter piacere neanche una briciola a nessuna. Ed era convinto che anche la tapina cretinotta di turno ci giocasse, con lui. E forse era anche vero. Come gli altri e le altre rideva alle sue smorfie un po’ sceme, ma usava un tono convincente. E lui, finiva per illudersi, che almeno quella, disperata e tapina, provasse interesse per lui. Tant’è vero che era lei che lo cercava, con gli occhi, con gli sguardi, gironzolando dove era probabile che lui si aggirasse. Sperando di incontrarlo.  All’osteria, si vantavano di avere nel menu una specialità unica: di saper cucinare i fusilli come nessun altro. Il locale si travestiva da locale di lusso elegante, di cucina raffinata e ricercata, solo quando c’erano i veri clienti… E tutto il resto del tempo era il ritrovo dei fessacchiotti del paese, dei loro sogni, delle loro fantasie, delle loro smorfie…  L’intercalare comunque, “mo…t’al dic me…”, alla lettera, stai a sentire me e te lo dico io, compresa una ammiratrice, chiunque fosse, faceva ridere… Anche lui faceva ridere, soprattutto quando si dimenticava della maschera con la barbetta che gli era stato consigliato di farsi crescere per non sembrare un allocco, e si rimetteva a fare le smorfie…

Era sostanzialmente un sempliciotto. Un piccolo modesto squallido clown di paese.  A casa, con i gatti e con quella là, si sentiva a suo agio e comunque rigava diritto. In giro, a sbevazzare, a far finta di essere un cantautore, un seduttivo, solo lui credeva al proprio ruolo. Nessuna persona per davvero lo riusciva a considerare: al massimo, per accontentarlo, e per non mandarlo al “suo paese”, i bevitori sorridevano compiaciuti. E qualche deelusa/illusa di turno, lo stesso.

Per proprio interesse personale. Più che per merito suo di lui.

 

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