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domenica 15 novembre 2020

IL FOGLIO DI GOMMA DEL TEMPO

 IL FOGLIO DI GOMMA DEL TEMPO

La motorizzazione l’aveva detto: quel modello di scooter non avrebbe più potuto circolare. Superata la fruibilità per quella categoria Euro.
Ma funzionava ancora. E a lui piaceva: con le borse laterali, il parabrezza, e gli altri aggeggi e ammennicoli, appariva addirittura più grande di quello che era… “Paré e mia vess…”
Ma a parte l’apparenza con la quale l’aveva travestito, per farlo assomigliare, in movimento, e a distanza a uno delle categorie più di lusso e costose, gli ci era affezionato. Alcuni particolari della carrozzeria lasciavano desiderare. Ci aveva provveduto rinforzandoli con invisibili fili di fil di ferro o di nylon. Super attak aveva cercato di rimediare al resto.
Però l’ordinanza della motorizzazione civile era lì: da rispettare, applicare, per quanto fosse una grande scocciatura.
Il Web aveva suggerito soluzioni.
Esistevano piccoli kit per la trasformazione degli scooter e farli funzionare a gpl.
Pensò si trovassero solo nelle storiche regioni delle auto a gas dei decenni passati… E invece: anche a Milano!
Già… E come arrivarci da quella parte opposta rispetto all’ingresso dall’autostrada di Novara? Di navigatore non se ne parlava, soprattutto per lo scooter.
Con l’abituale disponibilità intelligente, la giovane dottoressa si offerse come navigatrice. Lei avrebbe guidato la vetusta decappottabile cabrio coupé, pilotata dalle mappe del navigatore. E lui con lo scooter: dietro!
Già…
Ma già allora c’era il problema dell’adenoma prostatico…! E le conseguenti ricorrenti frequenti soste per cambiare l’acqua alle olive… Come diceva quella brutta espressione squallida dei tempi della sua giovinezza.
Il kit che gli fu montato e installato, proveniva, manco a dirlo, da uno dei paesi dell’est ex socialista. Polonia!
Pregiudizi limitati, e ottimismo… Allora!
Tornò a riprendere il mezzo qualche settimana dopo. Con l’impianto funzionante e omologato…
Da quel tempo aveva preso a fare le sue gitarelle nell’Ossola. Secondo una sua consuetudine mentale: arrivare fino al passo della Frua. Bere l’acqua ghiacciata di neve delle fontanelle. Riempirsene le borracce. Fare uno spuntino sulla panchetta di pietra davanti alla chiesina. Un piccolo coltello di acciaio taglientissimo a serramanico. Salame di capra. Tome saporite. Pane ossolano ricchissimo di uva passa, fichi e altre leccornie… Più che un pane era un dolce povero dei tempi addietro.
Per farne scorta, insieme alle tome, una tappa di sosta alla latteria ossolana di Crodo.
Era passato, almeno le prime volte, anche a rivedere l’edificio dove, appena diplomato maestro, si era raggranellato tre soldazzi in estate con quella colonia. Si sarebbero poi chiamate centri estivi. Ed erano gestite dagli squallidi residui delle associazioni del tempo libero fascista: alle quali avevano cambiato il nome. Assumendo quello di gioventù italiana. E togliendo il connotato fascista che forse stava nel termine littorio.
L’impiegata era piccoletta è molto graziosa. Paffutella. E subito avevano stretto tra loro. Purtroppo la fanciulla aveva deciso di andare al matrimonio vergine… A quel tempo si chiamava petting, il rapporto fisico quasi completo che escludeva purtroppo il connotato finale della immissio penis. Ma anche lui era forse ancora verginello. E si era accontentato… La sera, lasciata la squadra dei ragazzi terribili delle periferie torinesi, con la sua morbida puritana fanciulla, si appartava. Dove capitava.
Alla latteria di Crodo, doveva aspettare il suo turno: molti turisti dal milanese e dal Varesotto facevano la coda con lui. E alla fine: le sue vivande predilette!
Ma, ad onor del vero, va detto che prima di arrivare lì, era passato da Premia. Dove sotto la pineta si allargavano i banchetti e i gazebo di un mercatino estivo… Anche lì, guarda caso, gestito da polacchi… Parlottava abbastanza da farsi capire in italiano la signora che lo gestiva.
“Horribili visu”: gli oggetti che spiccavano prevalentemente erano piccole riproduzioni in bronzo di Hitler e di Mussolini.
E residuati bellici come maschere antigas, elmetti e altro di oltrecortina…
Se li comprava lì i suoi coltellini a serramanico d’acciaio taglientissimo.
Ma c’era anche un’alternativa.
Comprare o meno gli oggetti era una variante.
A Premia c’era anche un ristorante che lui frequentava da qualche decennio. Aveva trasformato il nome originario, in quanto abbastanza inesatto e improprio, da “Bar Sport”, in un altro. Abbastanza estraneo per lui: ma era pieno loro diritto, intendo dei gestori, dargli l’appellativo che preferivano.
Ci era stato nei tempi in cui c’era ancora la sua vecchia madre. Immenso colorito dinosauro, buffo ma a lui molto caro. Forse addirittura nell’anno precedente alla sua collocazione nella casa di riposo dove avrebbe terminato tempo dopo la sua esistenza.
E prima ancora, c’era stata anche la sua preziosa bambina: che restava appisolata nel suo passeggino dopo essersi sgollata il biberon di latte tiepido che lui padre materno le aveva preparato.
Anche nell’estremo viaggetto con sua madre, era in compagnia della bambina ormai quasi ragazzetta.
Ricordava con tenerezza la golosità dell’anziana genitrice… Che chiedeva continuamente di essere scusata, perché le occorreva più tempo per quelle delizie del palato… E toccava col gomito alludendo al proprio bicchiere: non riusciva a gustare i cibi col bicchiere vuoto…
Poi aveva preso ad andarci con lo scooter. In versione benzina.
E successivamente in versione benzina più gpl.
Un rituale.
Molto laico.
Ci era stato l’anno in cui si era liberato della sua ultima convivente: l’aveva ricordato in una sua composizione poetica. Che aveva intitolato “specchi”. E si riferiva agli specchi della realtá nei quali lui si stava guardando mentalmente e non vedeva più lei… E allo specchio nel quale, alludeva, l’ex amante col benservito, si sarebbe riguardata, vedendo la loro esperienza precedente dalla propria visuale. Due diverse visuali. Due specchi divenuti ormai completamente estranei, l’uno all’altro.
E ci descriveva il lungo percorso sulla superstrada che iniziava da Gravellona Toce.
Con i fianchi dei monti nei quali spuntavano come fiori o come funghi piccole minute sperdute chiesette.
Lo scooter con l’impianto a gas consumava pochissimo…
Addirittura troppo poco…!
Costava quasi come spostarsi in bicicletta…! Ahahah …
Ma c’era un piccolo problema. Che forse dipendeva dalla rozzezza dell’impianto polacco. La carburazione era pessima. E per quanto molto economico il viaggio per via del carburante, era costretto ogni 50 km circa, a fermarsi. Si imballava e ingolfava. Spegnere il motore. Prima di ripartire…
Ricordava il distributore di carburante di Villadossola: nel riempirgli il serbatoio di gas gpl, l’addetto aveva voluto fare una fotografia perché diceva che era la prima volta che vedeva uno scooter a gas…
Lo scooter era poi finito male.
Ingenuamente e per dabbenaggine propria, sapendo che non aveva nessun valore commerciale, lasciava spesso la serranda del box solo accostata. E, dabbenaggine ancora maggiore, per pigrizia, lasciava infilate le chiavi.
Aveva poi visto, nella registrazione antifurto, le cupe immagini offuscate del ladro che era venuto a portarselo via…
Niente da fare neanche dopo il recupero: avrebbe dovuto subire una nuova omologazione…
Si decise perciò a portarlo alla rottamazione, acquistandone uno nuovo o quasi…
Ma era tutta un’altra cosa. Questo era leggermente più minuto e minuscolo, ed era da città, come il nome del suo modello voleva descrivere…
Ci aveva pur messo le borsone laterali; il parabrezza e qualche altro ammennicolo…
Ma comunque era tutta un’altra cosa…
Bloccati tutti gli spostamenti.
Soprattutto tra regione e regione.
E addirittura divieto di uscire dal proprio comune di residenza.
Il pane dell’Ossola, farcito di deliziosi frutti canditi, come pure le tome stagionate, e salamini di capra: avrebbe dovuto aspettare ancora un po’ di tempo.
Quanto?
Difficile dirlo.
La pandemia vedeva il virus, infinitevolmente piccolo, dominare sul pianeta.
E quindi anche nella sua città.
Nel suo comune.
Nel suo territorio.
Nella sua Valdossola…
Rifece i conti.
Mah…
Forse l’estate prossima si sarebbe arrischiato ancora ad andare a bere l’acqua gelata che sgorgava dalle cannette giù nella vasca dove si depositava per abbeverare le mucche. Dalle pareti di legno sconnesso della vaschetta di raccolta, ricoperte da un velluto finissimo di muschio verde nero.
Perciò, non gli restava ora, che compiere il viaggio solo mentalmente.
E lo stava facendo.
E nel viaggio mandava parole amorose e tenere alla donna del suo cuore. Mentalmente.
E in qualche piccola sosta, con messaggi trepidanti e fotografie da corsa.
Da quando passata l’adolescenza, aveva messo da parte le vecchie fotocamere della foto ottica sovietica e della Germania dell’est, si era dovuto ridurre a fotografare con il telefonino o con il tablet…
Ottica molto più modesta, certo…
Ma aveva sempre pensato che nelle riprese, più ancora che le lenti e gli obiettivi, è l’occhio che guarda a scegliere l’inquadratura.
Prefigurando, progettando, costruendo l’immagine futura.
Anche ora, nella sua poltrona rossa un po’ consunta, mentre reggeva con due dita il cannello della pipa olandese di cotto, si regalò delle inquadrature.
Così.
Come era sua abitudine.
Mettendoci il proprio occhio.
La propria mente.
La propria fantasia…
E riprese anche i colloqui puramente mentali, con la sua ragazza, donna, alunna, preziosa di cui era innamorato.
Così…
E riprese a parlarle.
E riprese il viaggio col suo scooter un pochino più minuscolo.
E rivide tutta la Valdossola.
E riacquistò nuovamente abbondanti triangoli di toma stagionata.
E riempì di nuovo la sua borraccia termica da viaggio di acqua di neve.
Attendendo, fiducioso, che la pandemia si attenuasse.
Perché sapeva e ne era molto convinto che gli restava ancora una scorta di tempo, di mesi, di giorni, di ore, di settimane…
O comunque lo sperava e ci faceva affidamento.
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