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martedì 24 novembre 2020

PARLARE, COMUNICARE, (PENSARE)…MAGARI PER CAPIRSI

 PARLARE, COMUNICARE, (PENSARE)…MAGARI PER CAPIRSI

Ma sì, va, non basta mai…
A cominciare dai fessacchiotti molto ascoltati ruttanti di birra, hamburger e nutella… Ci hanno rotto molto i cosiddetti, con le loro espressioni prima gli italiani e cose del genere.
Quando riesce la pubblicità ad entrare nell’antro dove io abito, risuonano spesso, incredibili, fastidiose e improbabili espressioni che invitano a scegliere il pollo italiano, la carta igienica italiana, le automobili italiane… Polli, tacchini, lattuga allevati e coltivati in terra italiana: quella stessa che ci ha terrorizzato sapendo degli inquinamenti tossici seppelliti dove razzolano e dove brucano pecore spelacchiate agonizzanti (ma italiane). Ma non è solo una questione di Terra del fuoco: che le scatolette di carne, le calze, le polpette di pesce persico o quant’altro siano di provenienza italiana, non ha nessun significato o vantaggio. Se non per chi ama farsi condizionare pensando prima gli italiani…
E anche le parole che ci arrivano addosso ci sottopongono ad un esercizio violento. Dopo averci fatto il massaggio cerebrale invitandoci a comprare mutande italiane, ci sputano addosso in un linguaggio ai più incomprensibile. Se non a senso. In tal caso termini che non sono del nostro repertorio linguistico, vengono ad occupare indebitamente e in modo confuso e poco chiaro, il nostro vocabolario mentale.
Essendo la pandemia un fenomeno planetario, ecco che ci piovono addosso dei termini generatisi in questa occasione in altre culture e in altri contesti.
Ne prenderò a mò di esempio solo qualcuno: lockdown, recovery found, spread…
Letteralmente “lokdown” sta a significare: “confinamento”; traducibile facilmente in “stai a casa…”
“Recovery Found” è invece legato alla decisione della comunità europea di elargire fondi per recare supporto per la ricostruzione e la riparazione dei danni della epidemia.
“Spread” è legato al rapporto vantaggioso o no a prestare soldi tra una nazione e l’altra: più è alto o più è basso corrisponde a una valutazione dell’economia del paese ricevente.
La lingua dei termini specialistici è sempre quella anglo-americana.
Al tempo dei dominatori romani erano i soci dei municipi conquistati a dover contaminare la propria lingua imparando quella delle truppe che marciavano con l’calighe ai piedi. Dando vita, così per inciso, alle lingue romanze e neolatine.
Anni fa, mi era abbastanza piaciuto e mi aveva incuriosito constatare che i vicini di casa della Francia, anziché usare il termine dominante per definire il personal computer, ricorrevano al termine forse un po’ più impreciso da loro sorto: “elaboratuer” tornando alle origini dello strumento.
Ma certo: in certi casi l’esigenza di un “esperanto”, di un traduttore simultaneo anche se in una lingua arrangiaticcia e posticcia, è ovvio! Per capirsi in termini generali.
Ma raccontare alla “casalinga di Voghera” che per evitare il contagio da covid bisogna attenersi al “lokdown”, anziché dirle più semplicemente “rimanga a casa”, suona un po’ violento. Soprattutto quando i termini usati non sono già entrati nel repertorio linguistico comune, e ci si riferisce a concetti un pochino più complessi e complicati.
Non sto certo proponendo che i sanniti o gli eruli avrebbero dovuto continuare ad usare i propri termini lessicali, rifiutando quelli del dominatore romano… Per capirsi meglio l’esperanto…
Il giocoliere del linguaggio Dario Fo, soprattutto nel “mistero buffo”, usandolo e regalando un linguaggio ibrido di varie provenienze lessicali, accostava ai termini più noti altri delle parlate locali… Come d’altra parte faceva il maestro di scuola elementare quando si imbatteva in termini inusitati: pronunciando il termine nuovo, sconosciuto, e facendolo seguire da altri che ne erano analoghi fondamentalmente come significato, ma molto più noti e perciò compresi.
Tornando a bomba (pacificamente intendo), alcuni consigli pratici.
Spacciatori e manipolatori della comunicazione, nei mezzi mediatici o nei canali telematici, potrebbero forse dovrebbero svolgere azione pedagogica informativa.
“Usate il montascale tal dei tali; consumate e acquistate pollo e detersivo italiano; evitate il contagio e state a casa vostra; polacchi/ungheresi bloccano la distribuzione di fondi europei per la ricostruzione per non rinunciare alle proprie norme interne illiberali, vessatorie e disumane; se comprate micro apparecchi acustici per ipoacusia, è improbabile inutile e inopportuno, che vi dicano che oltre alla coppia per le vostre due orecchie, ve ne regaleranno un’altra in omaggio: inutile!…”
Mi suona sempre nelle orecchie il titolo di un’opera che mi fu consigliata agli ultimi anni delle scuole superiori: Leo Pestelli: Parlare italiano.
Magari, al posto del refrain: prima gli italiani, birra rutti e hamburger italiani, wisky italiano (?!), caviale o papaya italiana… Usiamo termini corrispondenti nel nostro idioma. Non certo solo per purismo linguistico: ma anche per le finalità e le funzioni che il linguaggio ha e deve avere. La lingue le parole servono per comunicare; ma contemporaneamente e forse ancora prima servono per pensare. Per poter usare lo strumento testa, occorrono parole… Non suoni confusi poco chiari e incomprensibili.
Al di là di ogni catastrofismo linguistico.
La lingua è uno strumento/oggetto in continua evoluzione. È viva. Si evolve, si trasforma, riceve necessariamente contaminazioni… Se non per scherzare nessuno direbbe mai, oggi, che i vaccini attesi come manna, sono “remedia salutistiche ottime e salvifiche”, come potrebbero aver detto secoli fa nei manuali tipo “secreti di medecina” o consigli da “La prattica dello infermiero”.
Mi fa tornare in mente quel tale ricchissimo coltivatore diretto (=perdapé, lo definiva la parlata novarese) ma profondamente ignorante per quanto garbato. Quando diceva che trovava interessante e apprezzabile che nel libro di lettura di suo figlio ci fossero dei versi di quello che lui chiamava: il “bertolbré”…
Riferendosi a Bertold Brecht, di cui affermava che non sapeva chi fosse e neppure di avere mai letto nulla di lui. Ma soggiungendo con aria scaltra:
«sa, maestro caro, mi piace il suono della parola… Mi piace la parola“bertolbré”…»
Nanni Omodeo Zorini Qfwfq
Guido Peagno

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