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mercoledì 27 gennaio 2021

A NON ... ANDARE A SCIARE

 A NON ... ANDARE A SCIARE

Altro risveglio ancora.
E dentro e fuori.
Nel computer che c'era di là, nella simulazione onirica, le schermate svaniscono.
Caffè schiumoso scende.
Ricominciamo tutto daccapo in questa dimensione qua.
Il velluto aveva dei riflessi che arrivavano quasi al blu. Partendo dal proprio verde bosco. La giacca è ok. Calzoni non stonati. Occasioni dell’Onestà o dell’Upim.
Ma si, comprali. Ti stanno proprio bene, sai.
Ma da qui al pullman per andare a sciare ce ne passa.
Eppure bisogna uscire dal bozzolo.
Dai vieni ti prego. Ci devi venire anche tu.
Su Marte praticamente. Loro vanno a sciare.
Lo guardano come uno che ha sbagliato il treno.
Perplesso, ma solo di dentro.
Rumori. Voci. Saluti.
Poi la sconosciuta amichetta cambia di posto.
“Scusi è libero? Posso sedermi qui?”
Nessuna spiegazione.
Occhi luminosi neri. Voce, tono di maniera. Cadenzata a far finta di…
La strada in salita delle parole; e poi buttarsi giù a precipizio. Scivolando, sciando davvero.
Mai fatta una cosa del genere. Solo i marziani fanno le gite alle piste di sci.
Ma la giacca di velluto rassicura.
Come se niente fosse.
“Ti confesso che anch’io, a dir la verità, non ho nessuna voglia di sciare. Sai. Il ciclo…
Anche la mia amica e il suo fidanzato stanno con noi.”
Un "noi" regalato, neppure previsto.
L’avventura va avanti. Giù a rotta di collo. Parole. Parole. Altre parole e altri toni recitati.
La tazza di caffè denso. Lo schermo si riempie di altre parole.
Quell’altro schermo onirico si è autodissolto da solo.
Tutta la barra dritta. Orza di prua. Alla: via così.
Quel lavoretto da tre soldi. Temporaneo. Provvisorio. Sei mesi e basta. Cinquantamila lire al mese. Meglio che niente.
Alle spalle la miseria traversata a denti stretti.
Amaro della bocca: dissolto. Obnubilato.
Lascia solo un alone. Che è facile provvisoriamente rimuovere. Quasi dimenticare.
“Sì. Va bene così. Ci infiliamo qui dentro al calduccio...”
Nuvole basse e nebbia. Inzuppano di bagnato voci, parole, fiati. Presenze.
Come se niente fosse. Ma chi ce l’aveva avuta per davvero la voglia di sciare? E poi cosa vuol dire? Come si fa? Lasciamo perdere. I marziani con le loro tute si sono sparpagliati. Dispersi nelle coltri bianche di neve. Ritorneranno più tardi. Nasi bagnati e intirizziti.
Io qui. Con questa gente qui. A dire così e cosà. La voce non trema neppure più. Recita la sua parte. Sigaretta. Caffè con brioche. Poi un tramezzino di cotto e sottiletta. Carta assorbente sciapa. Nessun gusto in bocca. Ma per stare al gioco.
Meglio certo sarebbe una paniscia e dello stufato da asino saporito.
Dal pullman il brodo del far sera.
Guardato distrattamente dai finestrini.
“Beh, io ti scrivo qui il mio telefono. Fatti vivo sai…”
Figuriamoci. Questa parentesi, questo episodio, questo imprevisto: è assolutamente improbabile. Ritorna l’effetto alone della miseria fredda e grigia.
Va fatta la scorta di nuovo di carbone per la stufa.
Da ripulire di ceneri e marogne metallose.
Carbone di scarto.
Pagato poco dal mucchio accanto al silos del gas.
Quella specie di ufficio. Quel "non lavoro" fasullo. Quelle cartelline schifose e mollicce di cartoncino grigio. A guardare i parametri, a controllarne uno sì e due no. Ad apporre la sigla in basso.
Il monitor qui pullula di caratteri grafici.
A balzelloni.
Saltabeccanti.
Andiamo avanti.
Così va bene.
La giacchetta verde era davvero attillata. Allora riusciva ancora ad allacciarne i bottoni. Per quella sua sagoma snella.
La barba, un giro tenue a coronare il suo volto di ragazzo. Solo un po’ più cresciuto. Il velluto ha preso il posto del nero della divisa.
Rimossa. Lasciata indietro nell’incubo passato. Di quel tempo là.
Ora c’è un tempo nuovo.
Al bar, alla brasiliana dell’angolo della via.
La solita voce recitata. Di maniera. Del far finta di essere un’altra cosa e in un’altra dimensione.
Con la coda dell’occhio l’aveva vista entrare.
Tum tum all’impazzata sotto lo sterno.
Cosa faccio ora? Restare quasi senza fiato. A vedere cosa succede.
“… Ma ciao… Aspettavo la tua telefonata. Sai? No, te lo offro io il caffè. Però sono di corsa. Mi aspettano un ufficio. Tutto sulle mie spalle. Il tuo numero ce l’ho ancora. Ti chiamo uno di questi giorni. Sai, la mia amica fa la festa di compleanno. E ci devi venire anche tu…”
Una piacevole botta nello stomaco.
Lì vicino lo squallido grigio dicastero.
Andarci a sfogliare quel ciarpame di vecchie pratiche. Scarabocchiando la sigla di firma in un angolo in basso. Accanto alle altre. Pratiche imbalsamate da decenni. La burocrazia tardiva provava rimediare. Con manovalanza precaria. Di giovani disperati e sognanti. Iscritti a tempo perso all’Università. Da non frequentare. Che poi magari si vedrà. Per intanto rinviare il militare.
I grigi ragionieri lo salutano "collega". E chiamano ragioniere pure lui.
Con le loro scarpe un sformate con dentro i dolorosi calli dei piedi.
Negli immensi lenzuoli dei fogli delle pratiche stufe, da spuntare, ci può infilare un foglietto. E sopra scriverci dei versi. Attento a non farsi beccare dagli occhiali quadrati del capufficio.
Direttore plenipotenziario.
Con diritto di vita o di morte o quantomeno di rimprovero secco.
Una stirata alla giacca di velluto. Che quella era proprio bella. La barbetta rifinita a forbici.
La nuova recita. “Tiassos”.
Saluti di qua. Sorrisi di là. Profondo freddo dentro l’anima.
I flut per lo spumante secco.
“Grazie di essere venuti tu e lei... Ci contavo molto. È bello ricevere gli auguri di compleanno. E quelli di "voi due" sono particolarmente graditi…”
Lui. Sparuto, spaventato, tremante, ex orfanello, stava diventando un pezzetto di quel “voi due”… Non gli era mai capitato. E neanche l’aveva ritenuto probabile o possibile.
Lui e quell’essere strano, sconosciuto, straniero che lo affascinava, temporaneamente diventati un “voi due”…
E mostrava quasi di crederci. Stava al gioco.
La recita autoimpostasi gli aveva assegnato un ruolo di sicumera. Spavalda. Forse addirittura eccessiva. Lei pendeva dalle sue labbra. Dalle sue bizzarrie.
Poi… Era ricomparsa la nebbia. Ma più fitta, grigia e zuppa di freddo di quella della gita a non sciare.
Per un po’ di tempo, non rassegnato ancora, aveva mandato alle ricorrenze una rosellina selvatica. Ma la nebbia dilagava. Inesorabile. Anche fuori tempo.
Quella stagione sognata e vissuta, niente più che un ricordo amaro.
Una piaga che solo a fatica era riuscita a cicatrizzare.
Riaccende la pipa.
Lo schermo del netbock continua lo show delle parole. Saltabeccanti. A balzelloni. Evocatrici di un ricordo amaro. Da lenire solo col tempo.
Ora svanito, annebbiato nel fondo, rimosso.
Dismessa definitivamente la giacchetta di velluto verde. Dismesso irrevocabilmente quel piccolo, immeritato, gratuito e futile paradiso momentaneo. Provvisorio.
Piccole, indistinte, sagome di statuette di creta. Ragazze e donne incontrate. Godute. Allontanate e perdute. In un’altra danza frenetica, a rapidissimo passo, una rassegna di amori svaniti e scomparsi.
Ora e qui.
Immagini fotografiche mentali soffuse di brume.
Inflessioni di voce, sguardi, odori e profumi di corpi e di labbra… Svaniti per sempre.
Un corpo lontano ormai vecchio come il tempo. Un morbido nudo di donna, certo ormai ora rinsecchito di rughe. Desideri. Pulsioni. Fremiti. Batticuore non più sintonizzati.
Tiassos definitivamente conclusi.
Per vivere ora solo il presente.
Con i suoi inverni freddi e malati.
Con sguardi a scrutare in boscaglie ombrose.
Calpestando scivolose foglie bagnate. Sui sentieri dell’adesso.
La piccola bici pieghevole: ha ancora le gomme gonfie abbastanza.
Inforcarla.
Superata la salita ardua dello scivolo ai box.
Una videotelefonata come placebo alla distanza imposta dalla pandemia. E al resto.
Frasi saltabeccanti ora.
Morsicate. Smozzicate. Sminuzzate all’infinitesimo.
L’ombra dei rami invernali. Il bagnato delle foglie che erano state calpestate. In altri posti. In altre realtà. In altre dimensioni.
Da qualcun altro.
A far finta di nuovo qualcosa.
Riguardando da lontano col cannocchiale rovesciato.
Dando sensi nuovi al reale.
Delusioni lucide ma nitide.
Mappe stellari.
Mappe disegnate e scandite sul monitor.
A perdersi sornione e beffarde.
Peregrinari a zonzo di sagome furtive.
In cui a stento riconoscere lontane, svanite, presenze remote. Scontrose, evanescenti, sempre più estranee.
La recita, la danza, il replay.
Chiudi qui, adesso, spegnendo lo schermo.
Mente locale.
Spostate le mappe nel cassetto mentale.
Dimensione nuova.
Anche questa vicenda da fare rivestire di routine.
Vuoti a perdere. Anche questa volta qui.
Mordi la mela e vai.
I sogni immeritati rinviati sine die.
Un’altra straordinaria, incredibile, fantasiosa vicenda, da far sfumare in avventura temporanea.
A termine…
Usa e getta.
La piccola bici ha le gomme ancora ben gonfie.
Chi vivrà vedrà.
Finché viviamo vedremo anche noi.
Stop.
Nanni Omodeo Zorini
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