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martedì 19 gennaio 2021

MERCATINO DEI RICORDI

 MERCATINO DEI RICORDI

Ma sì, certo… La soluzione migliore in quel momento era proprio quella.
Sul banco delle esposizioni, nell’angolo estremo in fondo, andava predisposto uno spazio adeguato.
Non una cosa eclatante o vistosa oltre ogni dire, come le proposte commerciali negli iperstore galattici… Certo che no. Non sarebbe stato neppure troppo difficile concepire, organizzare e attuare quell’angolo.
Tipo: ciotole di legno o di bambù; cestelli rustici di giunco; una cosa semplice.
E di materiale ne aveva a bizzeffe.
Alla rinfusa, almeno i primi tempi, sarebbe stato poi distribuito con maggiore ordine. Per tipologia. Per intensità. Per significati e rimandi.
Non potevano mancare, soprattutto per l’imprinting esistenziale che avrebbero creato e costituito, i momenti in cui, nell’infanzia lontana delle camerate, nella penombra della mezza luce notturna, il “raccontarsi le storie”…! E gliel’avevano confermato con tono dimesso, riservato e un po’ scontroso, altri sventurati compagni di sventura.
Una specie di masturbazione mentale, vagheggiamento pre onirico, regali per l’anima, per la mente, per quel vivere modesto, rassegnato e ombroso.
Da soli a raccontarsi mentalmente: “e poi facevamo finta che… io ero andato… e lì c’era anche… e io dicevo… e mi veniva risposto… e a volte a rispondermi era quella lei che mi aveva sorriso comprensiva e accogliente… e allora io poi facevo… e la portavo a … e poi… e poi… e poi…”
Sognare, ad occhi aperti ancora, nella veglia, regalandosi dolci zuccherini improbabili ma dolcissimi…
Era ancora un problema, decidere come disporre quel ricordo.
Ma non da solo.
E oltre a questo placebo autoconsolatorio, pezzetti, schegge, frammenti di ricordi…
A cominciare da quelli più graditi. Pieni di nostalgia e di rimpianto.
Un mosaico. Un patchwork variegato, composito, ricchissimo di sfumature e di varianti. Un puzzle in cui disporre i pezzi ai frammenti, a piacimento.
Il materiale mnestico di cui disponeva a bizzeffe, l’avrebbe distribuito con garbo, a farne una composizione, un ikebana…
Già, con gli occhi interiori, visualizzava il film in cui predisporre quei piccoli gioielli.
Ma non solo quelli. Anche le schegge residuali, le scorie, i frammenti meno piacevoli. Più amari. E anche dolorosi e sanguinanti.
Questo, lo possiamo mettere qui un po’ più indietro. Il babbo disteso, che sembrava un frate addormentato, all’obitorio dell’Ospedale maggiore. In quei corridoi sotterranei bui. Accanto a dove erano le docce pubbliche che gli orfanelli intruppati in divisa visitavano una volta al mese.
E invece, sfumato, annebbiato, per quanto luminoso, quell’ultimo viaggio con la Topolino blu petrolio, a Carcoforo. Nitido e insieme confuso.
E il cortile dell’istituto, con le panchette disposte distanziate. Dove poter sostare una mezz’oretta circa nella prima domenica del mese per le visite parenti. Che poi voleva dire attendere la mamma, sempre in ritardo, prima che il tempo venisse chiuso, col cuore in gola. A sentirsi chiamare, negli ultimi momenti, mentre si stava ad aspettare senza fare niente, nello studio collettivo. Fin quando il proprio nome e cognome veniva pronunciato.
E le camminate con zia Luisa, a raccogliere i crochi andando al lago d’Agaro. A Codelago. Alla centrale…
E quella bambina bionda, dagli occhi azzurri da angioletto, che lo guardava amorosa. Davanti alla buffa statuetta di gesso colorito di madonna, nei corridoi dell’ospedale, reparto infettivi, in quella lunga degenza per sospetto portatore di difterite. E il bigliettino, segreto, che quella piccola gioia aveva lasciato alla tozza infermiera Delfina: che glie l’aveva fatto vedere di sfuggita. Dicendogli che era proibito.
E il peso infamante come una tortura medioevale, del berretto a visiera rigido, della divisa e della mantella, appena fuori dalla scuola media duca d’Aosta. E quella ragazzetta che aspettava. Guardando. Guardando proprio lui…
E quegli occhi coi quali aveva giocato nel raccontarsi le storie alla sera prima del sonno.
I primi approcci amorosi. Le tachicardie tempestose e violente.
I primi baci scambiati. Le mani che cercavano. I corpi impacciati che si incontravano.
E poi i primi contatti amorosi fisici vissuti e agiti.
Le feste dell’unità, sull’alea di San Luca. Ingurgitando qualche bicchiere di troppo di barbera scadente. Nei pochi rarissimi giorni delle ferie e vacanze estive.
Le littorine per l’Ossola. Con le loro frenate brusche e singhiozzanti. E quel puzzo intenso di gasolio nafta. Che ricordava quello delle corriere dal muso prominente, di colore blu, che suonavano ad ogni curva le loro trombe, salendo in Valle Antigorio.
I barconi a motore, pur essi odorosi di nafta, girovagando nella leggiadria nuda delle isole del Dodecaneso.
E le spiagge vuote. Immense. Anch’esse nude come nudi i corpi. Caste trasgressioni.
E la supponenza gloriosa dei primi amori. A sentirsi piccoli re onnipotenti. Prima che arrivassero lacrime di oblio, meste, e mai rassegnate.
E anche quelli più recenti. Come montagne russe coi loro saliscendi, alle stelle, le discese all’impazzata, con quel fremito alla bocca dello stomaco, come un orgasmo preventivato.
Mentre da qualcun altro veniva frugato intorno . I volti estranei, scovati casualmente. Con sguardo compulsivamente insoddisfatto in eterno.
Fotocopie di alter ego del noi, vagamente similari, impeccabilmente con barbe e occhi provocanti. A destare e accendere pulsioni di rancore. Di rabbia repressa. Perché venivano cercati come alternativa a quel noi stessi che ci sentivamo di essere.
Le cartine stradali. Il diesel anche lui col suo gasolio, nel camper condotto per tutta l’Europa. E le altre mappe. Virtuali ma troppo concrete. Nell’etere feroce e crudele.
I sorrisi di acqua pulita. I sorrisi civettuoli ricevuti qua e là. Nel girovagare in iperstore infiniti, come cattedrali di scatolette di tonno. Incontrati e perduti in pochi istanti.
Rapidi flash di incontri improbabili. Possibili e solo sognati.
Telefonini e tablet. Rinnovata alternativa per scriverci sopra versi e pensieri. Dismessi i foglietti accartocciati, gli scontrini sul retro e le biro: sulle tovaglie dei tavoli delle pizzerie.
I costanti infiniti traslochi. Le migrazioni a non finire.
Tutte quelle altre fughe dall’odore stagnante di risaia, avvicinandosi il più possibile a quell’oriente soprattutto pensato. Con la piccola auto molleggiata.
Quella continua fuga senza fine. Quell’andare. E andare. E andare ancora…
Senza un dove. Quando la meta era solo un pretesto. E il viaggio diventava lo scopo fine a se stesso.
Ecco: tutte queste ultime cose con o senza odore di nafta, potrebbero stare di qua… Oppure anche di là. Collocate l’una accanto all’altra.
E i cespugli, gli sterrati per l’Alpe Veglia, o gli altri boschetti coi sentieri di foglie marce fradice umide, avventure a fondo perduto.
E la penombra, come un bosco, le tapparelle abbassate. Luci tremolanti di candele. Bacchette di sandalo e incenso. A riguardare il proprio film in tempo reale. Nel morbido materasso immenso. Circondati di specchi. Seducenti e morbosi.
E l’amarezza che sale dalla bocca dello stomaco.
La cicuta degli addii. Differiti. A volte solo rimandati.
Col gusto prezioso della ritrovata pulizia e libertà.
Cancellando ogni volta la lavagna d’ardesia.
Sì.
Sul banco delle esposizioni, nell’angolo estremo in fondo, andava predisposto proprio uno spazio adeguato.
Il materiale era tutto già pronto. Addirittura in eccesso.
E da quel pullulare, il fare capolino dei nudi femminili orgiastici, a ripetere sempre il loro sì sì sì sì… ancora ancora ancora ancora…
Fino all’ultimo respiro. “ jus-qu’au but du soufle”.
Che,
“tutto è sempre meglio troppo presto che non mai… Tonfo del vecchio pistone nel battiburro di parole…”
Cantava il poeta irlandese.
Nanni Omodeo Zorini





Ermanna Scroppo
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